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Oskar Groening, il “contabile di Auschwitz” va in carcere a 96 anni

novembre 30, 2017 • Articoli, Paralleli, z in evidenza

di Loredana Biffo –

Quando si dice che la giustizia è lenta, il 96enne “contabile di Auschwitz”, Oskar Groening, dovrà andare in carcere per aver contribuito all’uccisione di 300mila persone. Lo ha stabilito il tribunale regionale della Bassa Sassonia, che ha rigettato l’impugnazione della difesa. Nel 2015, Groening era stato condannato a 4 anni di reclusione, per il suo ruolo di contabile nel campo di concentramento di Auschwitz: era il responsabile della raccolta del denaro dalle valigie dei deportati. Groening poi rimetteva in circolazione il contante sottratto alle vittime. Per decenni l’uomo era sempre riuscito a sottrarsi alla pena: la sua difesa era che non aveva ucciso nessuno direttamente. Il tribunale di Celle ha stabilito che “sulla base della perizia effettuata, e nonostante la sua età avanzata, l’imputato è in condizioni adeguate per sopportare la pena in carcere”. La sola motivazione dell’età non è sufficiente a impedire la prigione, secondo la legislazione tedesca.

Non mancheranno di certo coloro che pensano sia assurdo incarcerare un uomo così anziano, o che parlano impropriamente di perdono, ma in quali contesti sociali viene usato questo termine, e qual è la zona grigia che separa il perdono dalla rimozione?
Il perdono, come sappiamo, è un concetto di matrice cattolica; non è contemplato nella cultura protestante, ed è massicciamente presente nella cultura italiana per ovvi motivi di imprinting cattolico.
Secondo la religione protestante (si legga a proposito Max Weber; L’etica protestante e lo Spirito del Capitalismo), famosa per aver abolito l’intermediazione sacerdotale tra Dio e l’individuo, il “dialogo” tra i due, è intimo ed esclusivo. Chiedere perdono a Dio anziché avere l’intercessione del sacerdote, è cosa ben diversa, e mette in condizione di dover “sopportare il silenzio della non risposta”, quindi fare i conti con la propria colpa.
Questo da un punto di vista psicologico, è indubbiamente un aspetto che induce ad una crescita morale dell’individuo macchiatosi di un delitto, e alla conseguente presa d’atto della propria responsabilità; oltremodo, non si ha alcuna garanzia che la colpa venga perdonata. Conseguentemente la coscienza dovrà fare i conti con le proprie colpe.
Contrariamente la cultura cattolica, mantiene da sempre l’individuo in uno “stato infantile” attraverso la “doppia coscienza”, dimensione in cui la colpa viene fortemente ridimensionata, quando non rimossa, e il soggetto educato alla non responsabilità.

Altresì, la vittima, subisce un doppio affronto (si legga a proposito Primo Levi; I sommersi e i Salvati), perchè non le viene riconosciuto il diritto a non perdonare, e incarna lei stessa il ruolo di “malvagio”, maturando paradossalmente lei stessa un senso di colpa indotto dalla disapprovazione sociale di chi non non conoscendo pienamente i fatti, e soprattutto non avendoli subiti, la relega al ruolo di “cattivo che anela alla vendetta”.

In realtà il non perdono è cosa molto diversa dalla vendetta, mentre il perdono è un condono della colpa che annienta la vittima, privandola del diritto al riconoscimento del suo dolore. Una situazione che naturalmente si ammanta di tutta una serie di risvolti psicologici che impediscono al soggetto di affrontare le difficoltà della vita.

La doppia morale della cultura cattolica è spiegabile con il fatto che dal pulpito si insegnano le regole, che vengono poi derogate attraverso la confessione.
Ancor una volta, un terzo – il sacerdote – si auto-investe della responsabilità di togliere e dare. Toglie alla vittima e dà al reo. Un atto di una violenza inaudita, che genera nella vittima un sentimento di ingiustizia.

Il perdono cancella la colpa, unica condizione attraverso la quale la coscienza ha la possibilità di giungere a maturazione e acquisire consapevolezza in merito alle sue azioni.
A tal proposito è interessante ricordare il concetto buddista della “legge di causa ed effetto”, in base alla quale ad ogni causa corrisponde un effetto; definizione che implica la “responsabilità” soggettiva più che oggettiva.
Noi semplicemente e laicamente, possiamo dire che nessuno può cancellare o modificare i fatti accaduti, pertanto non è etico pretendere che le vittime siano obbligate a perdonare, ovvero cancellare. In tal modo si corromperebbe la coscienza che non saprebbe più distinguere tra ciò è bene e ciò che è male se ogni male può essere azzerato attraverso il perdono; privando inoltre il colpevole di elaborazione e presa di coscienza, si genera pericolosità sociale attraverso la reiterazione della falsa coscienza.

 

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