Insegnare la diseguaglianza
La vicenda della scuola di Pomezia, Comune della periferia romana gestito dal sindaco Fabio Fucci del Movimento 5 stelle, che ha “tagliato” la merenda dei bambini più poveri, ha un precedente – avveniva qualche anno fa ad Adro – per opera del sindaco leghista Lancini. Che escludeva dalla mensa scolastica i figli di famiglie morose sulla retta della mensa.
Quello che importante rilevare da queste vicende, non è tanto il fatto che riguardi l’iniziativa di una forza politica piuttosto che un’altra – impresa ardua distinguere le differenze di policy negli ultimi anni – anche perchè questo scadrebbe immediatamente nelle polemiche “da campagna elettorale”. Piuttosto quello che è interessante, è il significato “sociale” di quelle che non sono semplicemente delle “tendenze” politiche, ma dei “modelli di società” a cui si sta inesorabilmente dando una connotazione significativa che è intrinsecamente accettata dai più nell’era del capitalismo flessibile. Ossia è accettata e giustificata la “diseguaglianza”. Gramsci avrebbe detto che i dominati hanno fatto proprie le idee dei dominanti.
Che il sindaco, essendo “primo cittadino”, conferisca un imprinting al modello proposto, dichiari che chi non ha i soldi per la merenda, “se la può portare da casa”; denota una ulteriore, quanto grave, sfumatura classista. In quanto non tiene conto che i soggetti che non si possono permettere di pagare il dolce, molto probabilmente non potranno nemmeno averlo da casa. Inoltre questa situazione rende visibile e percettibile tra i bambini stessi cosa significhi essere più svantaggiati degli altri.
Poichè sappiamo da vari studi e ricerche, che la famiglia è la più importante unità sociale elementare che raccoglie e redistribuisce le risorse che servono alla sopravvivenza, è ragionevole sostenere che questa è investita e influenzata dalla crisi economica, del lavoro e del welfare. Soprattutto in un paese come il nostro, dove le politiche di sostegno alla famiglia sono praticamente inesistenti, contrariamente agli altri paesi europei. Praticamente la famiglia è l’unico fattore di integrazione sociale fondamentale per i figli.
La povertà non riguarda solo situazioni di disagio esterno, e non è necessariamente connessa a forme di esclusione sociale apparenti (Negri 2002), con politiche di questo tipo, ci si avvia velocemente ad una situazione di vulnerabilità sociale che espone fasce sempre più ampie di popolazione a fattori di diseguaglianza.
L’impressione è che la scuola stessa – grazie a politiche “aziendali” di tagli drastici – sia diventata ormai un produttore di diseguaglianza. Si tratta di decidere se si vuole definitivamente spingere l’acceleratore su politiche di stampo thatcheriano: “La società non esiste, è un’invenzione”, o se proprio ora che dilaga il fiele di una campagna elettorale tra le più schizofreniche a cui si è assistito da anni, sia il caso che la politica cominci a dare risposte serie ai bisogni dei cittadini.
In questo scenario, connotato da una sempre crescente flessibilità e precarietà, è chiaro che si intensificano i processi di infragilimento, che affondano le radici nel “come si sta dentro la società”, e la situazione sarà peggiore per chi ne starà fuori e non vi potrà partecipare, in una parola: emarginazione. E’ altresì inaccettabile – anche se è protagonista di queste vicende – l’idea che la causa dell’ineguaglianza debba essere attribuita alla mancanza di talento, d volontà e capacità. Che la povertà (e la conseguente marginalità) sia una “colpa” individuale e soggettiva. In definitiva, una autoemarginazione.
La causa della marginalità va ricercata in uno sviluppo capitalistico “patologico”, a partire dalla scuola/azienda, quale è diventata la scuola italiana. Non dimentichiamo che è proprio con il capitalismo che ha fatto la sua comparsa il “sottoproletariato” . Ovvero una fascia di lavoratori (ormai sempre più ampia) periodicamente senza lavoro o scarsamente retribuiti, resi perennemente poveri e incapaci di padroneggiare il proprio destino. L’ideologia dell’efficienza, serve in realtà a mascherare l’inattività imposta come fatalità naturale. Quando essa è, in realtà, la conseguenza di una scelta sociale e politica.Questi sono i nodi da affrontare, invece di perseverare con una campagna elettorale in cui si fa a gara a chi la spara più grossa. Mala tempora.
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