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Famiglia “naturale” o “denaturalizzata”?

maggio 15, 2014 • Articoli, z in evidenza

brandolini saraceno

di Chiara Saraceno*

 

 

Professoressa ultimamente si fa un gran parlare di “famiglia naturale” in merito alle questioni riguardanti i diritti, matrimoni omosessuali, educazione nelle scuole contro l’omofobia e quanto altro possa rientrare nella ri-definizione di un concetto di famiglia, che va modificandosi nel “sentire sociale”, ma che va puntualmente a sbattere contro il muro di gomma della visione ecclesiastica della famiglia, che, sarebbe minacciata di estinzione. Proviamo a rivedere la questione della famiglia in una visione che vada oltre il dibattito che contrappone la visione cattolica alla “realtà sociale”.

 

Il presupposto da cui partire, è quello di de-naturalizzare la famiglia, al fine di mostrarne la varietà, non solo di forme, ma di significati nel tempo e nello spazio. Basti pensare che famiglia anagrafica, famiglia legale, famiglia sociale e famiglia degli affetti, raramente coincidono. Anche se vi possono essere più o meno ampie sovrapposizioni parziali, disegnando appartenenze e confini variabili non solo da una persona all’altra, ma anche per una stessa persona a seconda di ciò che viene messo a fuoco. L’esperienza della diversità nel fare ed essere famiglia è, ovviamente comunissima quando si forma una coppia confrontando e mediando due tradizioni familiari, due modelli di famiglia, con differenze che possono apparire minime, ma diventare grandissime e perfino inconciliabili in caso di conflitto. Queste differenze possono riguardare i modelli maschili e femminili, le relazioni di coppia, e modelli educativi.

Potremmo dire che ogni coppia dà luogo a una famiglia “mista”: a una famiglia in cui si combinano, meticciandosi con maggiore o minore successo, due diversi modi di concepire e praticare le relazioni e la vita familiari. Se poi allarghiamo lo sguardo al di fuori delle società occidentali sviluppate e lo si allunga all’indietro, nella profondità della storia, le differenze “culturali” esplodono e si radicalizzano. La comune” natura umana”, in effetti, non sembra garantire alcuna universalità ai modi di fare famiglia, nè sul piano biologico nè su quello normativo, nè tantomeno, su quello valoriale e di senso. La storia della civiltà presenta un pressochè inesauribile repertorio di modi di organizzare e attribuire significato alla generazione e alla sessualità. L’alleanza tra gruppi e quella tra individui – di costruire, appunto, famiglie. Poligamia, poliginia e monogamia, patrilinearità e matirilinearità, sono solo alcune delle forme in cui si sono organizzati i rapporti di sesso e generazione socialmente riconosciuti e in cui hanno trovato collocazione paternità, maternità, filiazione, appartenenze, con un legame spesso molto tenue, quando non assente, con i fatti biologici della sessualità e della generazione.

Costruzione eminentemente sociale, la famiglia tuttavia è l’istituzione che meglio esemplifica ciò che Durkheim (1895), ha definito “fatto sociale”: un fatto così ovvio da apparire come dato in natura, al punto da non essere neppure più visto nella sua complessità e nelle sue regole storicamente e socialmente situate. Un’ovvietà che la rende opaca, impenetrabile verrebbe da dire. Non vi è nulla di meno naturale della famiglia, sia per quanto riguarda i rapporti di coppia, inclusa la sessualità, sia per quanto riguarda la generazione. Gli studi di storia sociale, insieme a quelli antropologici ed etnologici offrono un’ampia documentazione di quello che definirei il” paradosso normativo della famiglia”.

Inoltre nel passato come nel presente e nelle varie culture, questo è il campo in cui l’umanità ha mostrato un’enorme capacità di inventare soluzioni istituzionali e normative, ben prima che le tecnologie riproduttive offrissero ulteriori elementi di complicazione e variazione. E’ la norma che decide di volta in volta che cosa della “natura” è considerato socialmente legittimo (ad esempio la procreazione entro il matrimonio, l’eterosessualità coniugale) e ciò che non lo è (ad esempio la procreazione fuori dal matrimonio, fuori dal rapporto di coppia eterosessuale stabile, l’omosessualità), o solo parzialmente naturale (una qualche forma di riproduzione assistita), costituisce una famiglia e ciò che invece non può accedere a questo riconoscimento.

Si pensi al paradosso secondo cui in Italia a lungo – fino al 1975, nonostante il dettato costituzionale – un padre coniugato non poteva riconoscere un figlio avuto con una donna diversa dalla moglie. E una donna coniugata non poteva negare al marito di riconoscere un figlio che lei aveva avuto con un altro uomo, a meno di perdere il diritto di riconoscerlo lei stessa. Un bell’esempio di come non sia certo la natura a fondamento della famiglia. Lo stesso linguaggio con cui ancora oggi si designano i figli nati entro o fuori da un matrimonio, ben segnala “l’artificialità sociale” dell’istituto familiare: i primi sono legittimi, i secondi “solo” naturali, con una equiparazione avvenuta solo di recente. Dato che i modi di fare famiglia appartengono ai fenomeni di lunga durata e fanno parte dei tratti distintivi di una cultura e di una società, ciò che viene sperimentato più spesso è la loro ovvietà. Per questo ci sembrano innaturale e rischioso.

Oggi, tuttavia, ci troviamo in una di quelle congiunture storiche che mettono in dubbio appunto l’ovvietà dei modi di fare e intendere la famiglia. Mutamenti culturali fanno emergere domande di riconoscimento un tempo impensabili. Fanno emergere il carattere “sociale” di ciò che invece concepivamo come naturale. Per questo, prendendo atto del fatto che la famiglia, lungi dall’essere un dato naturale, è una costruzione storico-sociale, e perciò diversa e cangiante nelle forme e nelle regole che la identificano nello spazio e nel tempo. Occorre essere cauti a proclamarne la crisi, quando non la fine. Ciò che appare come crisi può essere la più o meno dolorosa, complicata, anche conflittuale transizione tra un modo e l’altro di fare famiglia.

Si potrebbe persino sostenere che modelli troppo rigidi e univoci di famiglia, che non lasciano spazio per forme alternative, possono ridurre la capacità di fare effettivamente famiglia. Possono cioè impedire di stabilire relazioni di solidarietà, affetto, reciprocità e generatività, in contesti in cui un numero crescente di individui sperimenta quei modelli come troppo stretti, o inadeguati, ma non trova strumenti simbolici e luoghi sociali in cui sia accettabile e legittimo elaborare modalità diverse. A lungo il matrimonio è stato per la chiesa cattolica uno strumento avente due fini precisi e pressochè esclusivi: quello di costruire, in quanto ambito della sessualità legittima, il remedium concupiscientiae (specie maschile) e quello della procreazione.

La “complementarità di cui la chiesa parla è il primo esito della costruzione della coppia coniugale intima. Essa è fondata su una visione dicotomica dell’essere umano, segnato da una sola differenza insieme irriducibile e totalizzante, quella del sesso, e sul fine dell’unità. La coppia non può che essere eterosessuale. Questa coppia viene quindi “costruita a livello culturale” come l’unica e valida forma di genitorialità non solo sul piano biologico e giuridico-legale, ma della socializzazione e dei processi di formazione dell’identità dei bambini. Dove non c’è una coppia – eterosessuale e complementare – il processo di crescita di un bambino è visto come mancante e a rischio. Questo modello, come informa la Dichiarazione internazionale dei diritti del bambino, sovrapponendosi a, e ignorando, la pluralità delle figure genitoriali o semi genitoriali che popolano il mondo affettivo e relazionale di un bambino fin dalla nascita: nonni, zii, fratelli e sorelle, balie, istitutrici ecc., non rispetta l’effettiva realtà sociale. Spesso la rigida artificialità della famiglia come costruzione giuridica, definisce l’identità stessa delle persone e i modi in cui esse rappresentano i propri legami.

 

* Chaiara Saraeno, ordinario di Sociologia della famiglia all’Università di Torino e professore presso il Centro di ricerca sociale di Berlino. Attualmente è Honorary fellow presso il Collegio Carlo Alberto di Torino. Si è occupata principalmente, spesso in modo comparativo, di questione femminile, sociologia della famiglia, rapporti tra le generazioni, sistemi di welfare e povertà. E’ tra l’altro editorialista di “La Repubblica”. Tra le sue opere più recenti ricordiamo: Sociologia della famiglia (con Manuela Naldini, il Mulino 2007), Onora il padre e la madre (con Giuseppe Laras, il Mulino 2010), Conciliare famiglia e lavoro (con Manuela Naldini, il Mulino 2011), I nuovi poveri. Politiche per le diseguaglianze (con Pierluigi Dovis, Codoce 2011), Cittadini a metà. Come hanno rubato i diritti degli italiani (Rizzoli 2011), Coppie e famiglie, non è una questione di natura, Feltrinelli 2012.

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