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Il confine tra reato di tortura e la pena di morte

marzo 6, 2014 • Articoli, Politica, z in evidenza

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   Dipinto di Reza Olia

Ieri è stato approvato in senato il disegno di legge sul reato di tortura, già bocciato tempo fa, e indispensabile più che mai alla luce di molti episodi di violenza di Stato, e relative condanne in cui l’Italia è incorsa negli ultimi anni sul piano dei diritti umani. Nel nostro paese non è più in vigore la pena di morte, ma sorge spontanea la riflessione sul confine, la “zona grigia” tra la tortura e la pena di morte.

Il 4 marzo 1947 veniva eseguita in Italia l’ultima condanna a morte.  In realtà se si escludeva il regicidio, l’alto tradimento e i delitti commessi in tempo di guerra, la pena di morte in Italia era già stata abolita durante il Regno d’Italia (1889) dal codice Zanardelli.

Reintrodotta dal codice Rocco (1930) sotto il fascismo, fu poi espressamente vietata dalla costituzione (1948). Tuttavia l’Italia è un paese in cui i diritti umani continuano ad essere una questione grave e irrisolta. Si pensi alla questione dei “decessi in custodia”, inerenti ai maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine. Nonchè la preoccupante imparzialità delle indagini e l’accuratezza della raccolta e della conservazione delle prove nei casi di decessi in custodia e di presunti maltrattamenti, che spesso hanno portato all’impunità dei perpetratori.

Le reiterate richieste delle vittime e delle loro famiglie alle autorità, sono rimaste l’elemento essenziale per garantire indagini approfondite e consegnare i responsabili alla giustizia (rapporto Amnesty International del 2011).

 Fa scuola a tal proposito, il caso dell’omicidio colposo del diciottenne Federico Aldrovandi, morto nel 2005 dopo essere stato fermato e percosso da agenti della polizia di Ferrara. I tre agenti condannati a pene detentive rispettivamente di 8, 10 e 12 mesi, sono attualmente rientrati in servizio. Erano stati offerti alla famiglia del ragazzo, due milioni di euro quale risarcimento per la morte del figlio, alla condizione di non costituirsi parte civile nei procedimenti ancora pendenti..

 Sono stati portati avanti anche i tentativi di chiarire le circostanze e stabilire le eventuali responsabilità della morte di Stefano Cucchi, deceduto nel 2009, diversi giorni dopo l’arresto, nel reparto penitenziario di un ospedale romano. I parenti hanno ritenuto che il decesso sia stato causato dai maltrattamenti subiti prima di arrivare in ospedale.

 Un medico era stato accusato dell’omicidio colposo di Giuseppe Uva, morto nel giugno 2008 in un ospedale di Varese, si era dichiarato a causa di un errato trattamento medico, si sono protratte le indagini sui maltrattamenti che Giuseppe Uva avrebbe subito qualche ora prima della morte, mentre era in custodia della polizia.

 La corte d’appello di Genova aveva emesso verdetti di seconda istanza nei pro cessi sulle torture e altri maltrattamenti perpetrati da agenti delle forze di polizia contro i manifestanti in occasione del G8 del 2001. Riconoscendo successivamente che la maggior parte dei reati occorsi nel centro di detenzione temporanea di Bolzaneto, tra cui lesioni personali gravi, ispezioni e perquisizioni arbitrarie, erano ormai prescritti, ma ha comunque ordinato a tutti i 42 imputati di pagare un risarcimento civile alle vittime. Ha inoltre imposto pene detentive fino a tre anni e due mesi nei confronti di otto imputati.

La corte ritene successivamente colpevoli 25 delle 28 persone accusate di analoghi abusi commessi nella scuola armando Diaz, inclusi tutti gli alti funzionari di polizia presenti al momento dei fatti, e ha inflitto pene detentive fino a cinque anni. La maggior parte cadute in prescrizione, e i dirigenti rientrati in servizio, promossi a carriere superiori.

 Se l’Italia avesse applicato anni fa, come era stato proposto in parlamento, il “reato di tortura” nel codice penale, la prescrizione dei suddetti casi, non si sarebbe potuta applicare.

 Oggi vi è stata in senato l’introduzione reato tortura in ordinamento, ma si poteva fare di più, sostiene Luigi Manconi: “ Il disegno di legge che introduce il reato di tortura in Italia è stato il mio primo atto in questa legislatura. Ciò per dire quanto io tenga a questa problematica e perché, fatta questa premessa, debba precisare che intendo votare a favore di questo disegno di legge, pur esprimendo forti perplessità e insoddisfazione nei confronti di questo testo. La mia critica non si limita ad alcune questioni, pur rilevanti, ma all’impianto ed all’ispirazione complessiva del disegno di legge a mio avviso depotenziato in misura rilevante nel suo significato, come la prospettiva e la finalità di questa normativa, a partire dalla formulazione che prevede la reiterazione degli atti di violenza, cioè il fatto che debbano essere ripetuti perché si dia la fattispecie della tortura. Il motivo fondamentale di critica è tuttavia un altro, nel provvedimento la tortura non è qualificata come reato proprio ma comune, quindi imputabile a qualunque cittadino e non solo ai titolari di funzione pubblica, cioè alle forze dell’ordine, come avviene invece in molti altri paesi occidentali. Senza questa previsione il provvedimento ne risulta devitalizzato”.

 Da non dimenticare la questione del “reato di clandestinità”, obbrobrio del “pacchetto sicurezza” del governo Berlusconi, in cui venne inserita una modifica del Testo Unico degli Enti Locali, conferendo ai sindaci l’adozione di “provvedimenti anche contingibili e urgenti: inserimento “dell’anche” estende notevolmente il potere dei primi cittadini.

Anche se nel 69% dei casi le ordinanze si rivolgono a tutta la popolazione, basta fare due conti per scoprire che le cose sono molto più complesse. Se si sommano le varie tipologie di ordinanze, si scopre che almeno il 42% dei provvedimenti si rivolge direttamente o indirettamente alle minoranze etniche, agli immigrati, e soprattutto ai poveri.

 L’effetto principale dei provvedimenti di questo genere è quello di ridefinire il concetto di sicurezza, che non ha più a che fare solo con l’incolumità personale, ma anche (e forse soprattutto) con la morale pubblica, il “decoro” e la “decenza”.

Spesso il diritto speciale delle ordinanze si sostituisce a quello ordinario, sanzionando comportamenti non previsti come reati.

In altri casi, invece, l’ordinanza del sindaco aggiunge una sanzione alla punizione già prevista dalla legge, istituendo una vera e propria “doppia pena” per migranti, senza fissa dimora, minoranze etniche: questa politica delle ordinanze rischia di minare in profondità lo stato di diritto e il suo carattere non discriminatorio e universalistico.

Questo conferma anche in sede locale che l’istituzione del “diritto separato” è la vera cifra delle nuove politiche, anche in materia di tortura oltre che di discriminazione di genere.

 L’Italia è già stata accusata dalle istituzioni internazionali, in particolare dall’ ILO (Agenzia per il Lavora dell’ Onu) per le gravi violazioni dei diritti umani, e il rapporto reso pubblico il 16 aprile 2009 da Thomas Hammarberg, Commissario per i diritti umani.

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