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La Torino “gay friendly” dove non esiste la “famiglia”, ma “le famiglie”

luglio 11, 2016 • Articoli, Torino Intorno, z in evidenza

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di Giulia Dalla Verde

Il primo atto ufficiale della neosindaca di Torino è una nota a penna, da ratificare in ogni documento emesso dal Comune. L’Assessorato alla Famiglia, affidato da Appendino a Marco Alessandro Giusta, ex presidente dell’Arcigay torinese, cambia nome e si declinerà al plurale: non più alla “famiglia”, ma alle “famiglie”.

Una piccola rivoluzione linguistica rivendicata con orgoglio da Giusta, che la ritiene non una mera questione nominalistica, ma «un cambio di approccio che consiste nel dare un nome alle cose, a quelle realtà che già esistono e che non trovano un riconoscimento nemmeno nel linguaggio».
Un atto simbolico dell’ultimo minuto che però non è certo passato in sordina: i commenti al “comune plurale”, che aveva già fatto parlare di sé con la ferma decisione di Appendino di farsi chiamare “sindaca”, si sono dilagati rapidamente da Torino a tutta l’Italia, spaccati nel lodare o nel condannare la novità firmata M5S.

Decisa e compatta è la curia torinese che ha affidato le sue perplessità al settimanale diocesano “La Voce del Popolo”: «il primo atto della Giunta è stato questa discutibile modifica al vocabolario del Comune: perché non ascoltare la città, quanto meno il Consiglio comunale, prima di procedere con un passo di così grande rilievo simbolico, oltre che amministrativo?».
Il direttore Rolandi si spende anche nell’analisi filosofica, ribadendo «il fatto ontologico per il quale la famiglia è composta da un uomo e una donna» e aggiunge che, al contrario di ogni banale intuizione di noialtri, la declinazione al plurale è in realtà una grossolana e pericolosa omologazione, che «cancella la peculiarità delle situazioni: perché assimilare il matrimonio alle forme che desiderano distinguersi?».

Nessuna grande novità, quindi, né tantomeno ci si poteva aspettare da parte del mondo clericale un atteggiamento diverso, ben intonato al titolo che campeggiava ieri su Avvenire: «Torino, la neosindaca cambia la famiglia». Nessuna novità, certo, se non la conferma che questo piccolo passo abbia più valenza politica e potenza simbolica di quello che forse i loro stessi promotori pensavano.

A stupire è invece la reazione in casa del Pd torinese, che sembra non aver gradito il cambio di etichetta all’assessorato. Monica Canalis ha depositato un’interpellanza dall’efficace titolo (almeno questo va riconosciuto) «Famiglia o famiglie, la scelta non è Chiara», al contrario delle idee della consigliera comunale che sembrano anzi cristalline: all’interno del documento, Canalis interroga la sindaca domandandole se si renda conto che attribuire lo status di famiglia a coppie conviventi e a unioni civili omosessuali sia in realtà «una forzatura giuridica».
Dimostra anche di aver studiato (male), mentre ripetendo testualmente l’articolo della legge Cirinnà, ritiene di ribadire la palese differenza tra unioni civili come “specifiche formazioni sociali” e famiglia fondata sul matrimonio. E per diminuire l’imbarazzo, conclude aggiungendo: «la mia interpellanza non è un’iniziativa personale, ma s’inserisce nella posizione ufficiale del Pd».

E così è questo il primo gesto di opposizione del Pd alla giunta pentastellata: un atto pubblico dai contenuti vagamente omofobi, quasi alla vigilia del Torino Pride che festeggia nel 2016 i suoi primi dieci anni di marcia. Un’interpellanza che si ritorce subito contro lo stesso partito, che ha visto sollevarsi alcune voci di dissenso, tra cui quella di Chiara Foglietta, consigliera comunale e attivista LGBT: «con grande stupore e profonda contrarietà apprendo dai giornali che la collega Monica Canalis ha presentato questa interpellanza, azione compiuta in totale autonomia rispetto al gruppo consiliare del Partito Democratico».

La declinazione al plurale non è comunque un atto isolato nella linea della nuova giunta: qualche giorno fa Chiara Appendino ha diffuso un video che la ritrae in compagnia dell’assessore Giusta e di altri volontari impegnati a sostituire alcuni manifesti del Pride imbrattati da svastiche e insulti. «All’ignoranza rispondiamo con i fatti», ha commentato la sindaca.
È quasi grottesco vedere come la situazione si sia pressoché ribaltata: il M5S accusato a più riprese di aver tradito la legge Cirinnà e di non avere idee limpide in proposito, si dimostra molto più rigoroso nel rispettarla dello stesso Pd, ancora ben arroccato su alcune posizioni discriminatorie.

Torino è stata spesso definita una delle città più “gay friendly” d’Italia, al di là della casacca politica: dopo ventitré anni alla guida del Comune dev’essere certo difficile imparare a far parte dell’opposizione, ma sembra di una semplicità disarmante capire che a due atti simbolici, politici e potenti, la strategia migliore non è quella di contrapporre un’interpellanza omofoba, non condivisa e non condivisibile.

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One Response to La Torino “gay friendly” dove non esiste la “famiglia”, ma “le famiglie”

  1. Mario ha detto:

    Nato in una famiglia dove mancava la figura paterna, posso permettermi di dire che la famiglia omosessuale è una sciocchezza. Chi vive in famiglie alternative soffre della mancanza di una delle due figure genitoriali essenziali per uno sviluppo corretto. Non solo il mio caso, ma amici figli di divorziati soffrono di insicurezze che si sono ripercosse pesantemente nella loro vita adulta. Come ad una costruzione a cui mancano alcune colonne portanti.
    Ripulire i manifesti torinesi imbrattati da insulti razzisti era giusto, il razzismo va sempre combattuto; ma questa sciocchezza di cambiare “famiglia” in “famiglie” è solo uno stupido mezzuccio di propaganda per il M5S. Supportare e incentivare le famiglie omosessuali serve solo sovvenzionare a chi ci guadagna spaventosamente (più di centomila euro a bambino) con questo traffico di esseri umani; senza alcun vero rispetto per i bambini.

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