La “violenza assistita” diventa reato
di Loredana Biffo
La violenza assistita diventa reato, secondo quanto emerge dalla Corte di Cassazioni pochi giorni fa, quando in famiglia si consuma violenza (fisica o psicologica che sia) .
Il fenomeno della violenza maschile, o della violenza familiare in genere, è spesso svalutato nella sua gravità per quel che concerne il “soggetto primario” bersaglio di violenza, cioè la donna, è tuttavia da considerarsi “onnicomprendente” in quanto investe in modo diretto i minori che assistono (o che vivono un “humus” culturale fatto di tensioni) ad episodi di violenza da parte del padre nei confronti della madre.
Il danno olistico provocato nella psiche e nella personalità dei bambini, è molto importante e devastante, contrariamente a quanto comunemente si pensi, anche quando questi non sono direttamente oggetto di tale violenza.
In poche parole, la classica frase che spesso le donne vittime di violenza pronunciano: “con me è violento ma in fondo è un buon padre”, è quanto mai rivelatrice di quanto la vittima, cioè la donna che subisce violenze, entri in una zona grigia del vissuto quotidiano, dove non percepisce la gravità, il pericolo, e gli effetti destrutturanti sulla vita sua e dei figli. La patologia, diventa normalità.
Per meglio comprendere cosa si intende per violenza o maltrattamento, è certamente utile fare riferimento alla definizione della Convenzione di Istambul del 11 maggio 2011:
“ I bambini sono vittime della violenza domestica, è da considerarsi maltrattamento, tutto ciò che impedisce il benessere del bambino, abbandono, malnutrizione, negligenza, percosse con mani od oggetti. Altresì la “violenza psicologica” di svalutazione, insulto, isolamento dalle relazioni parentali ed amicali, minacce di botte, di abbandono, di uccisione, violenza sessuale, e “violenza economica” esplicata come sfruttamento economico impedimento alle risorse economiche, far indebitare ecc.”
E’ di tale violenza che il bambino/a fa esperienza diretta o percependone gli effetti, non è solo il fatto di vedere la violenza, sentire i rumori delle percosse, grida, insulti e minacce. Anche il sapere o constatarne gli effetti (per esempio vedendo gli oggetti distrutti), è uno stato d’animo di dolore e di paura, dove si percepisce la disperazione, l’angoscia e lo stato perenne di terrore in cui questi soggetti vivono in famiglie a conflittualità continua.
Il fenomeno della violenza oltre a danneggiare la donna psicologicamente o fisicamente, anche fino all’omicidio, come purtroppo le cronache dicono, danneggia i bambini, ma soprattutto crea una spirale di patologia da cui è difficile uscire a livello sociale, perchè i bambini vittime di questo fenomeno, hanno altissime probabilità di diventare adulti problematici.
Nei casi di violenza, alcune sfere dello sviluppo risultano compromesse, sono bambini che provano la “pena di vivere”, spesso non sono riconosciuti nella loro sofferenza, in primis dai genitori, questo spesso accade anche che da adulti si sentano dire “sei esagerato” quando parlano della sofferenza vissuta. Infatti è riscontrato che i genitori maltrattanti neghino il maltrattamento, disconoscendo così la sofferenza dei figli, alimentando in tal modo sintomi di grave frustrazione, rabbia, disistima.
Molte madri picchiate, quando sono interrogate sulla possibile percezione che di tutto questo possono avere i figli, rispondono che i bambini dormono in un’altra stanza o che comunque dormono o non sono presenti o non sentono o non capiscono.
Le conseguenze a lungo termine, cioè sulla formazione dell’individuo che sarà adulto sono: paura, colpa, bassa autostima, depressione, distacco emotivo, disturbi d’ansia, aggressività, passività, somatizzazioni, dipendenza, sintomi dissociativi, abuso di sostanze, difficoltà genitoriali, trascuratezza, violenza fisica, psicologica e sessuale a danno di figli e partner.
L’educazione affettiva di questi minori in generale è impregnata di stereotipi di genere, connotati da svalutazione della figura materna e da disprezzo verso le donne, ma i problemi riguardano ambedue i sessi, in eventuali processi di identificazione nel padre o nella madre.
Non mancano altresì (benchè rari) casi di “resilienza”, cioè di trasformazione (da parte dell’individuo vittima di violenza) e di ricostruzione in base a risorse mentali proprie che vengono messe in atto per uscire dallo stato di sofferenza.
E’ evidente l’importanza dell’aspetto giuridico , e la recente approvazione del “reato di violenza assistita”, che si configura come reato penale nei confronti dei minori qualora vi è un maltrattamento continuo da parte di un coniuge. Questo quanto è emerso da una pronuncia della Cassazione di alcuni giorni fa:
Il reato si colloca nella più ampia nozione di maltrattamenti contro i familiari e i conviventi e può configurarsi tutte le volte in comportamento familiare consista:
– in una serie di atti violenti (non necessariamente fisici) posti in essere abitualmente in presenza prole e che ledano la personalità dll’altro genitore (si pensi alle continue mortificazioni e offese verso il partner).
– o anche omissioni caratterizzate sia dal consapevole disinteresse verso le necessità affettive
essenziali ed insopprimibili dei figli che dalla violazione dei doveri genitoriali di istruzione ed
educazione e delle minime regole del vivere civile valevoli anche per la comunità familiare.
Il reato in esame non si realizza tuttavia, quando le vessazioni nei confronti del familiare sono occasionali, occorre che le condotte del genitore violento siano compiute in modo abituale, sicchè i minori si trovino difronte a scene di maltrattamento costante.
Il reato prevede che chiunque abbia a tutela un minore il quale subisca o assista a maltrattamenti,
sia punibile con una pena di reclusione da 2 a 6 anni. Se poi dal fatto deriva una lesione personale grave, la reclusione è da 4 a 9 anni; se gravissima, da 7 a 15 anni. In caso di morte, da 12 a 24 anni.
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