Le donne e il potere, Janua diaboli
La questione del potere maschile, e la subordinazione femminile, è una dimensione della “costruzione sociale” relativa al genere, che persiste nei secoli e ha origini antiche.
L’incresciosa vicenda dell’affossamento delle quote rosa in parlamento, non è che la reiterazione di un modello maschilista che ha origini antiche, e che dimostra ancora una volta quanto il potere sia nelle mani degli uomini, e come questi lo gestiscano con maestria.
Fin dall’alto medioevo, la posizione della donna è “definita” in senso negativo anche dall’affermarsi della religione cristiana, nonostante nei discorsi di Cristo vi fosse stata una visione positiva delle donne, del ruolo che avevano svolto nella diffusione della Buona Novella nelle comunità. In seguito, la Chiesa cristiana, introdusse un concetto di “sistema famigliare e sociale” improntato su rapporti patriarcali, fortemente gerarchici, con una forte componente misogina.
La religione cristiana, che è nascente in quel periodo (258 ca.337) si consacra politicamente attraverso la divisione della religione dall’impero; in questa confluiscono la giurisdizione romana, la filosofia greca e la cultura ebraica, le quali contribuiscono efficacemente alla “costruzione” antropologica e sociale dell’idea di “femminile”.
Un’idea che avrà nei secoli futuri un peso determinante nella reiterazione sociale di un modello di donna subalterno all’uomo, dato su cui tutti gli autori medioevali erano in sintonia; la “infirmitas mulieris” è stato un concetto pressochè immutato nei secoli successivi: la creazione di Eva dalla costola di Adamo. Eva che a causa della sua disubbidienza, avrà la sottomissione come punizione (epistole di Paolo. I sec.”Le donne tacciano in assemblea”) .
Il concetto di inferiorità, veniva ribadito assurgendo fondamenti teologici finalizzati all’esclusione delle donne da tutti i ruoli pubblici e magisteriali, sancendo così la subalternità come un “fatto della natura” prima ancora che delle leggi.
Di conseguenza la sua propria debolezza fisica, e psicologica, determinava che il governo delle donne, tutto ciò che non riguardava la vita familiare, era da considerarsi “contro natura”.
Ricordiamo che già Aristotele (384 a.C. – 322 a.C.) sentenziò: “corruptio regiminis est quando regiem pervenit ad mulieres” (Politica, I, c.13; “la corruzione dei poteri è quando il potere è in mano alle donne).
Questo era quanto la Chiesa dettava rispetto alla figura della donna, fatto salvo poi, avvalersi del contributo di questa, e attraverso l’assegnazione di una notevole quantità di “potere” a figure femminili che avevano il compito di esercitarlo “per il bene della Chiesa”, unica garante della fede.
Al di fuori di questo ambito religioso, la Chiesa demonizzava però qualsiasi forma di potere al femminile. Un potere che a dispetto della coercizione data dalla visione religiosa, nella realtà della vita quotidiana, esisteva e veniva esercitato dalle donne a seconda delle classi sociali di appartenenza, sia nel contesto urbano che in quello rurale.
In particolar modo nell’ambito della nobiltà, si ponevano l’ordinamento giuridico e i rapporti quotidiani, su piani distinti. Nelle pieghe di questi, il potere femminile si esplicava attraverso varie forme molto concrete. Si può tranquillamente affermare che quando le donne riuscivano ad entrare nelle sfere del potere, e se ne impossessavano, non erano passivi oggetti di scambio, bensì mettevano in atto un esercizio del potere avente le stesse caratteristiche di quello maschile. Smentendo quindi la supposta inferiorità e debolezza “naturale” della donna in tutti quegli ambiti dove la gestione del potere richiedeva intuito politico e forza di carattere, non solo le differenze sessuali diventavano poco significative, ma addirittura le donne davano mostra di maggiore intuito e forza.
Quasi che la condizione di inferiorità a cui venivano sottoposte la maggior parte di esse, fosse la forza di quelle che al potere riuscivano ad arrivare, e difficilmente vi rinunciavano.
Tale potere femminile, veniva accettato, se pur circoscritto a pochissime, e considerato come “modello di donna virile”.
Quindi pur sempre come una controfigura maschile, di cui la donna faceva proprie le caratteristiche, erano donne che governavano al posto di figli minorenni, o che, come l’imperatrice Irene (752-802) moglie di Leone IV (750-780), rimase vedova e governò per dieci anni al posto del figlio minorenne Costantino, dando prova di talento in campo politico e religioso, ma che dopo la maggiore età del figlio governò con lui per soli sei anni, e poi lo fece deporre e accecare, proseguendo a governare. Fu la prima donna nella storia a ricoprire il ruolo di monarca-sovrano.
Questo tipo di virilità, veniva a volte elogiata, a volte biasimata, a seconda se l’esercizio del potere veniva esercitato in funzione di un fine: “il bene della Chiesa”.
A tal proposito si pensi all’imperatrice Elena (248/249-335ca.) che era modello della sovrana devota, detentrice di un potere non fine a se stesso, ma legittimato dal “ruolo materno” e di guida; cosa ampiamente riconfermata nelle regine attive dell’epoca, nell’esempio di evangelizzazione di Clotilde in Francia, Olga in Russia (890ca.969), e Teodolinda in Italia.
Un ruolo fondamentale per l’affermazione del cristianesimo, era quello delle principesse che diventavano badesse. Era infatti all’interno dei monasteri che attraverso l’acquisizione e il mantenimento del potere si stabilizzava l’autorità e il prestigio delle famiglie reali e aristocratiche, come la famiglia reale franca legata al monastero di Santa Giulia di Brescia; nel quale le badesse esercitavano e gestivano il potere economico, religioso e sociale. Si pensi alla nobildonna Ilda (688) che nel monastero di Whitby tenne un incontro conciliare nientemeno che tra la Chiesa celtica e quella romana.
L’attualità, ci riporta costantemente a quel modello di donna che viaggia sul binomio vergine/puttana. Basti pensare che i più accaniti oppositori delle quote rosa sono i membri dell’area berlusconiana, che si vanta di aver introdotto le donne in parlamento senza doversi avvalere di un “privilegio”, ossia le quote rosa. Tesi tra l’altro sostenuta non di meno dalla Gelmini, che narra la barzelletta del merito anteposto al privilegio.
La realtà è che si preferisce lasciare alla “discrezionalità” del potere maschile nel “scegliere” le “meritevoli” (sic). Con buona pace dell’avanguardia femminista, sostenitrice della teoria che le quote sarebbero degradanti.
Sempre madame Gelmini chiosa: “le quote non esistono in altri paesi, se si applicassero dimostreremmo di essere un Paese arretrato”.
E’ ragionevole ritenere l’esatto contrario – proprio perchè siamo un paese arretrato non le applichiamo – è più semplice in questo modo lasciare ben saldo nelle mani di una classe dirigente arretrata e ottusa il potere di decidere su tutte le questioni che riguardano il genere, i diritti e questioni come il lavoro femminile che continua ad essere penalizzato da un sistema di welfare inesistente che si basa unicamente sulla figura femminile interna alla famiglia, si pensi alla cura degli anziani. Così siamo certi che non avverrà alcun cambiamento concreto sul piano dell’emancipazione femminile.
Ancora una volta, la politica al maschile, e le “sue donne” – nominate – perchè “meritevoli”, hanno dimostrato che siamo proprio un “Paese La Qualunque”.
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