Il fu Pc torinese
Mai come ieri sera ho avuto la sensazione che si sia davvero chiusa a Torino la parabola del leggendario Partito Comunista torinese. Il partito di Gramsci e di Togliatti, dei Negarville e dei Pajetta, dei Novelli e dei Fassino, quel partito che si è trasformato mille volte per adattarsi agli eventi, senza cambiare sostanzialmente mai, senza metabolizzare davvero il suo passato, ebbene quel partito ha visto ieri sera uno dei suoi ultimi, prestigiosi esponenti cadere irrimediabilmente, quasi travolto da degli eventi che non è riuscito a decrittare.
E’ caduto, anche se non umiliato, perché giustamente omaggiato da tutti, anche dalla sua avversaria.
Bisogna dare atto a Fassino che ha saputo mutare la sua politica, ha saputo affrontare grossi problemi di trasformazione della città e ha cercato di risolverli in una situazione non facile di crisi generale. In una parola ha tecnicamente governato bene e gliene dobbiamo essere riconoscenti.
Ma al tempo stesso non ha potuto sfuggire all’impressione della stanchezza, in lui anche fisicamente marcata, né alla maledizione della casta, quella di essere comunque colpevoli di qualcosa, anche se si è persone oneste e per bene. Lo stesso confronto fisico con l’Appendino era impressionante e non poteva non stamparsi negli occhi degli elettori.
E poi la solitudine di quest’uomo, la solitudine politica, la mancanza di veri eredi, la mancanza di alleati, la mancanza di una classe dirigente fatta crescere all’insegna di una cultura, di un insieme di valori, magari di una ideologia. Termine quest’ultimo praticamente vietato dal bon ton dei salotti torinesi.
Del resto, se ci si lascia alle spalle un moloch come il Pci e si archivia la falce e martello mettendoci i colori del drappo nazionale si fa un’operazione che porta dritto al Partito della Nazione, cioè a qualcosa che rischia di essere un contenitore, in cui ci può stare tanto di buono come l’esatto contrario, dipende.
Il Partito della Nazione non sono i Democratici americani, non è il Labour, non è la Socialdemocrazia, non è il Liberalsocialismo, ovvero formule politiche in cui ci stanno sì moderati e radicali, ma ci stanno i progressisti, con un patrimonio di valori che si snoda lungo due secoli e non ha ancora cessato di parlare alla gente e di riservare sorprese, magari dal profondo del Vermont, come s’è visto. In mezzo a crisi ed incertezze, questo è vero, ma senza perdere le fondamenta.
Tornando all’impressione iniziale, sullo schermo della tv ieri sera si contrapponevano due figure, l’una giovane e l’altra anziana, l’una sconosciuta e l’altra nota, ma entrambe postideologiche. Ovviamente la più credibile non poteva che essere l’Appendino.
Fassino è stato una vittima del renzismo? Sì, anche, ma quel Pd postideologico, che ha preteso di bypassare la socialdemocrazia un tempo vituperata, che non si è preoccupato di definire per bene uno straccio di liberalsocialismo, che si è disinvoltamente dichiarato Democrat senza sapere bene che significasse, quel Pd non è nato ieri, ma nel magma in cui si abbatté la prima Repubblica senza averne fondata una nuova, grazie anche al furore delle procure che rendevano tutto così facile, così scontato e indiscutibile. Il populismo oggi tanto esecrato cominciava allora, come la caccia alla casta, di cui Fassino è oggi una illustre vittima.
« Il manicomio chimico La logica del plebiscito permanente »