Le devastazioni culturali dello Stato islamico
di Ian Morris
Di tutte le barbarie perpetrate dallo Stato Islamico, la distruzione di Palmira è una delle più atroci. Eppure bisogna riconoscere che la follia dello Stato Islamico è metodica. Gli attacchi ai siti archeologici fanno parte della strategia dello Stato Islamico per ottenere più soft power, più potere di influenza.
La tattica dello Stato Islamico non è nuova. I conquistatori hanno sempre saputo che scatenare la propria rabbia contro le antiche reliquie dei nemici sconfitti, distruggendole o trasformandole in trofei, ha un forte potere simbolico. In Iraq esistono testimonianze millenarie di tali pratiche: la testa di bronzo che probabilmente rappresenta Sargon di Akkad (considerato il fondatore dell’impero accadico, il primo impero della storia, nel 2300 a.C.) fu venerata per quasi due millenni. Ma i Medi e i Babilonesi che saccheggiarono la città di Niniveh − nel 612 a.C. − cavarono via gli occhi di Sargon dalla statua, ne tagliarono le orecchie e ne sfregiarono il naso. Venticinque secoli dopo, gli Inglesi conquistarono l’Iraq nel 1917 e nel 1941, nel 2003 lo fecero gli Americani, ma non ci furono saccheggi, né furono rase al suolo moschee e ziggurat. Le forze americane abbatterono le statue autocelebrative di Saddam, ma al contempo i comandanti distribuirono alle truppe schede che spiegavano come evitare di danneggiare i siti archeologici. Come mai? Il cambiamento radicale avvenne nel XVIII secolo in Europa, quando i sovrani si resero conto che avrebbero ottenuto più soft power, più influenza, presentandosi come sovrani illuminati,invece di comportarsi come Attila. Se un sovrano aveva al suo servizio accademici esperti della cultura dei nemici era ammirato e legittimato; se invece ricorreva soltanto a soldati distruttori, era disprezzato. La campagna d’Egitto di Napoleone rappresenta un punto di svolta: il generale si impossessò di tesori inestimabili e li portò al Louvre, ma i suoi savant scrissero la Description de l’Égypte, opera impeccabile in dodici volumi, e non distrussero quasi nulla.
Uno degli elementi più straordinari dell’imperialismo europeo del XIX secolo è la corsa alla cultura: gli studiosi facevano a gara per conoscere, non per distruggere, il passato delle civiltà. La gara per decifrare i geroglifici egizi (vinta dalla Francia) e l’alfabeto cuneiforme (vinta dal Regno Unito) ha contribuito grandemente alla legittimazione dei rispettivi imperi, così come la creazione dei “musei universali”, pieni di esempi rappresentativi delle più elevate conquiste culturali dell’umanità, provenienti da ogni angolo del pianeta (anche in questo caso hanno probabilmente vinto la gara gli Inglesi).
Se l’obiettivo dell’impero, come ritenevano soprattutto Inglesi e Americani, era insegnare ai popoli colonizzati ad autogovernarsi, bisognava accettare che questi ultimi potessero controllare il proprio passato. I colonizzatori fecero però fatica ad abituarsi all’idea: ad esempio, nel 1861 fu creata l’Indagine Archeologica dell’India, ma fino al 1944, tre anni prima della fine del Raj, pochissimi archeologi indiani ne fecero parte! Negli anni della decolonizzazione il patrimonio culturale diventò oggetto di orgoglio nazionale e molti paesi vietarono l’esportazione di reperti archeologici.
Ora, nel XXI secolo, quasi tutti i paesi del mondo aderiscono alla linea di pensiero post-illuminista secondo la quale i reperti antichi sono un patrimonio culturale inestimabile. Valorizzare il patrimonio culturale di ogni civiltà è considerate legittimo, moderno e liberale, e i governi che non proteggono il patrimonio culturale dei loro nemici sconfitti pagano un caro prezzo in termini di soft power.
Ma l’obiettivo autoproclamato dello Stato Islamico è di essere arcaico e illiberale: in questo senso la strategia di distruzione dei reperti e l’uccisione degli archeologi, benché retrograda e barbara, è allo stesso tempo razionale ed efficace per raggiungere tale obiettivo. Altri gruppi islamisti aderiscono a tale logica. Nel 1997 un gruppo islamico non identificato (probabilmente Gamaal al-Islamiyya) attaccò il tempio di Hatshepsut, nei pressi di Luxor, in Egitto, uccidendo 62 visitatori. Nel 2001 i Talebani afghani distrussero i meravigliosi Buddha di Bamiyan, enormi statue del V secolo d.C. Nel 2006 e 2007 militanti di al Qaeda danneggiarono gravemente la moschea al-Askari a Samarra, in Iraq.
Ma anche le Guardie Rosse di Mao distrussero innumerevoli templi di Confucio negli anni Sessanta, durante la campagna della Rivoluzione Culturale contro i “quattro vecchiumi”. All’epoca gli studenti venivano intruppati in corteo al mattino e mandati a distruggere a martellate statue e vasi, templi e palazzi della ‘vecchia’ cultura. Nel 1992 una folla di estremisti hindu rase al suolo la moschea Babri di Ayodhya, in India.
In modi diversi, tutti questi gruppi volevano staccarsi dall’ordine internazionale liberale. Lo Stato Islamico non si distingue per malvagità, ma per l’abilità con cui persegue la propria strategia, massimizzando i risultati del vandalismo culturale. Il primo risultato è l’attrazione che lo Stato Islamico esercita su coloro che condividono lo stesso obiettivo di ricreare il califfato dei Rashidun (ovvero degli Ortodossi) del VII secolo. Il vandalismo culturale rappresenta un cambiamento radicale rispetto alle tradizioni dell’Islam maggioritario, sia sciita sia sunnita. Fino al XIX secolo all’Impero Ottomano faceva comodo scambiare reperti greci e babilonesi con beni occidentali o denaro. Anche lo Stato Islamico genera profitto tassando i reperti sottratti dai territori che controlla, ma – e qui differisce dai regimi islamici precedenti – riconosce che il valore della propaganda generata dalla distruzione di tali reperti è talvolta molto maggiore di qualsiasi tornaconto economico.
Il secondo risultato che deriva dalla distruzione dei templi e dall’uccisione degli archeologi è che queste azioni evidenziano la differenza tra lo Stato Islamico e i dittatori laici che hanno governato la maggior parte del mondo musulmano a partire dagli anni Cinquanta. Questi regnanti volevano essere considerati moderni ed essere legittimati, di conseguenza apprezzavano l’archeologia e il patrimonio pre-islamico dei propri territori. Mohammed Reza Pahlavi, l’ultimo Scià dell’Iran, portò questa tendenza all’estremo e inscenò una grandiosa celebrazione per i 2500 anni dell’Impero Achemenide di Persia nel 1971. Secondo il Guinness dei Primati il banchetto curato per l’occasione dal parigino Maxim’s è stato il più sfarzoso di tutti i tempi. Alcuni uomini di potere arabi non sono stati da meno. Saddam Hussein spese una fortuna per restaurare un’antichissima ziggurat a Ur, e i suoi ministri della cultura facilitarono il lavoro sul campo degli archeologi occidentali.
Distruggere siti archeologi comporta il rischio di favorire la coalizzazione degli oppositori. L’amministrazione Assad spera infatti che i fatti di Palmira aprano una possibile collaborazione tra Damasco e Washington contro lo Stato Islamico. Ma se questo avvenisse, ne verrebbe rafforzata la propaganda islamista secondo cui l’Occidente sostiene sempre le dittature. Qualunque sia la risposta occidentale, probabilmente andrà a favore dello Stato Islamico.
Finora la risposta più ricorrente è stata una nobile denuncia della barbarie islamista, ma anche questa è una lama a doppio taglio. Se passasse il messaggio che gli Occidentali hanno più a cuore i templi romani di Palmira che i bambini morti nei bombardamenti, ancora una volta lo Stato Islamico parrebbe più virtuoso dei suoi nemici. L’Occidente potrebbe seguire la classica strategia liberale e rispondere al fanatismo con la tolleranza, incoraggiando ulteriormente gli scambi culturali e le mostre nei musei per celebrare i tesori della civiltà musulmana − rafforzando così un altro punto della narrativa islamista, che accusa l’occidente di paralisi morale e impotenza militare.
Questa vicenda sembra portare a tre diverse conclusioni, tutte negative. Primo, gli attacchi contro gli archeologi e i siti archeologici sono una tattica sottile e potente della lotta per l’influenza in Medio Oriente. Secondo, l’Occidente non ha ancora trovato una risposta adeguata a questa tattica. Terzo, aspettiamoci dunque di vedere altri archeologi uccisi e altri patrimoni dell’umanità devastati.
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