La società deumanizzata
di Loredana Biffo
“No, non erano inumani. Però, sapete, era questa la cosa peggiore, e cioè proprio il sospetto che non fossero inumani. Si faceva strada a poco a poco. Quando gli individui urlavano e saltavano, e si contorcevano, e facevano smorfie orribili; ma quello che dava i brividi era il pensiero della loro umanità, un’umanità come la tua, il pensiero della tua remota parentela con quel tumulto selvaggio e appassionato.” Joseph Conrad – Cuore ditenebra
Una riflessione sull’atrocità trasmessa dalle immagini di donne, uomini e bambini che fuggono dalla morte certa nei loro paesi infestati dalla guerra e dalla violenza. Le immagini dei profughi siriani rinchiusi in gabbie come fossero polli. Tatuati come fossero pezzi di carne in un macello in attesa di essere commerciati; strattonati dalla polizia ungherese come se si trattasse di criminali incalliti (posto che questo possa essere accettato perfino in tal caso), ci impongono davvero una riflessione approfondita sulla nostra “civiltà”, sulla nostra “umanità”.
E’ difficile dire se sia più disumana la guerra, le politiche scellerate della civiltà occidentale, il fondamentalismo islamico, o la dinamica con cui la scottante questione dei profughi viene affrontata. Una dinamica che evidenzia la “manifesta incapacità” della politica di mettere in atto dei provvedimenti di tutela e quant’altro sarebbe necessario per correre ai ripari. Un’incapacità che si trasmette ad ogni passaggio governativo in tutti i paesi, Stati Uniti compresi.
La condotta di chi gestisce il tutto a livello di ordine pubblico, è legittimata da un sistema di comportamento “superiore”, che è direttamente responsabile di quanto sta accadendo. Si tratta del “cesto che fa marcire le mele”, un apparato che offre un sistema solido e inossidabile nel contesto in cui tali individui agiscono.
Si, una “deindividuazione” dei carnefici, e una “deumanizzazione” delle vittime, queste vengono private della loro storia, nomi, vite – caratteristiche della umanità – e individuate con dei numeri (“Se questo è un uomo” di Primo Levi) che cessano di cessano di essere “umani”, divengono dei pezzi.
Ed ecco che da parte di chi osserva, entra in gioco il meccanismo di riduzione della dissonanza cognitiva: “la foto del bambino morto sulla spiaggia è di cattivo gusto”, “non possiamo ospitare tutti”, “del resto noi cosa possiamo fare…”, “aiutiamoli a casa loro” ecc…
Si cerca quindi una risposta utilitaristica ad una condotta disumana, ridefinendo la realtà dei migranti in modo da far apparire coerente la nostra inadeguatezza.
E’ così che quei corpi brulicanti sulle barche sgangherate cominciano ad apparirci come appartenenti ad un’altra specie, “umanoide”, quasi che si trattasse di un tragico compromesso tra una persona e un cadavere, qualcosa al di fuori della nostra gabbia mentale che ci consente di non essere travolti dalla loro tragedia.
Perchè si, la tragica esistenza degli altri, la vediamo come qualcosa dovuto al caso sfortunato e crudele per un verso, e per l’altro ad una sua “colpa” recondita – in qualche modo se l’è cercata – lo stesso meccanismo che scatta quando osserviamo la povertà. Ci rammarichiamo, ma ci auto-assolviamo, in fondo dobbiamo pensare a noi stessi, e poi chi è povero certamente non fa nulla per non esserlo, la povertà è sempre stata, e continua ad essere una colpa. Come un mantra calvinista.
Quelli non sono dei veri e propri esseri umani. Certo, che possano essere “cose” è piuttosto contraddittorio – da un certo punto di vista che abbia della logica – ma, quando l’orrore che pareva irreale diventa realtà, la contraddizione lascia spazio all’assuefazione, utile alla necessità di preservare la nostra normalità.
Quella specie di umano, che aspira ad essere uomo, donna, bambino, non riesce ad entrare nella normalità, entra nella dimensione dell’inferno in terra, e poi in quella della morte. E’ una morte che si infila nella vita quotidiana, dove l’orrore la fa da padrone, si diffonde per tutta la sua misera vita, una vita che la morte ha reso livida molto prima di averla soppressa, molto prima che il respiro cessasse.
La degradazione di queste persone, è un passaggio necessario perché si possa sopravvivere nella nostra quotidianità, la perdita di quei tratti costitutivi dell’umanità, e scivolamento nell’animalità.
In fondo la concezione di “umano” si fonda nella contrapposizione con l’animale. Non a caso l’etica aristotelica si fonda sull’idea che la razionalità distingua l’uomo dall’animale, concetto che ha attraversato l’illuminismo per giungere fino a noi.
E’ attraverso la deumanizzazione che riusciamo a pensare gli altri come a qualcosa di diverso da noi, come minus habens, ovvero un essere incompleto, oggettivamente animalesco. Ora forse, sarebbe il momento di considerare il fatto che gli animali provano sentimenti di empatia, ma in tal caso non si comprenderebe bene dove si dovrebbe collocare la nostra disumanità, che certo fa sorgere molti dubbi sulla supposta superiorità della nostra specie.
La nostra è una società che si sta spingendo nell’ambito del genocidio attraverso la degradazione dell’altro, percorso obbligato per superare il limite etico che conduce a commettere massacri e stermini di massa verso persone o gruppi. Siamo nel campo dell’erosione dell’inibizione figlia della razionalità, quella stessa inibizione che ci impedisce di ammazzarci l’uno con l’altro, ora sta saltando attraverso una rimozione collettiva della responsabilità.
Quando si oltrepassa il confine, è grazie al fatto che lo sterminio dell’altro è legittimato da interessi e ideologie che lo presentano come se fosse confinato allo stato di “non umano” o comunque inferiore, cosa che ne rende possibile l’attuazione. La deumanizzazione fa da spartiacque tra quello che dà una connotazione deforme della figura umana, priva o carente delle qualità essenziali che la definiscono, e i “normali” cittadini della nostra società.
Certo è che la deumanizzazione è sempre stata uno strumento di potere del più forte sul più debole, del più ricco sul più povero, un corredo di atrocità sociali. Pensiamo alla distinzione delle quattro fasi del genocidio introdotta da Raul Hilberg (1985) nel suo libro “La distruzione degli ebrei d’Europa”; che prima erano sottouomini, poi li si espropriava, li si concentrava in ghetti, e infine li si deportava per lo sterminio. Questo esempio – ma si potrebbe farne altri – infiniti nella storia umana – ci può far comprendere quanto sia facile la riuscita di tali processi. E ogni volta che questi fenomeni si presentano, ci domandiamo che fine abbia fatto l’umanità. Domanda spontanea difronte a tanto scempio, ma nel momento in cui ce la poniamo, abbiamo già rimosso il fatto che la storia non ci ha insegnato niente, che gli orrori ed errori si ripetono come un mantra lugubre.
Sorge spontaneo (almeno ad alcuni) cercare di comprendere il perché, e a cosa servono i meccanismi di deumanizzazione nelle società. Come questa venga interiorizzata e possa diventare una lente per interpretare il mondo circostante mantenendo quel distacco che ci permette di pensare che “loro” sono altro da “noi”. Esattamente come un ricco pensa al povero come un accidente della natura.
Secondo alcune ricerche (Herbert Kelman 1973) i punti cardinali per cui si arriva a tal punto che porta all’accettazione delle atrocità sociali sono tre: la deumanizzazione, l’autorizzazione delle autorità legittime (eseguivo gli ordini), e la routinizzazione delle procedure.
Quando si priva una persona dello status di “umanità”, si abdica al prendersi cura gli uni degli altri, li si inizia a trattare con fastidio, come un oggetto, e come mezzo per scopi altri, per esempio come fanno tutti i partiti populisti d’Europa, la Lega nel caso italiano, o l’orrendo Orban ungherese ecc.
Ebbene, questi sono veri e propri “processi di esclusione morale” che hanno come conseguenza di rendere normale e accettata l’ingiustizia e la violenza, in una perpetua legittimazione di essa. Lo si può riconoscere nei metodi sottili con cui si normalizzano i trattamenti afflittivi e le violazioni dei diritti umani e le relative violenze e schiavitù, anche attraverso le considerazioni sulla loro indegnità. Il ripudio dell’umanità dell’altro, della sua dignità, per mezzo appunto della deumanizzazione.
Purtroppo questo meccanismo è assai semplice da innescare, quanto difficile da disinnescare, sarebbe importante prevenirlo, vietando e dissinescando quei fattori determinanti quali la violenza delle dichiarazioni di politici populisti (Salvini docet), che incoraggiano gli attori sociali ad assumere comportamenti che altrimenti non sarebbero accettati (dare fuoco a campi rom, usare violenza su immigrati, omosessuali, donne ecc).
A tal proposito è sempre utile ricordare la “notte dei cristalli” tra il 9 e il 10 novembre 1938 si consumava in Germania uno dei più odiosi e ignobili attentati contro la comunità ebraica tedesca con il pretesto dell’uccisione a Parigi del terzo consigliere d’ambasciata da parte di un giovane ebreo per vendicare la deportazione della sua famiglia, venne attuata in tutta la Germania questa notte di terrore orchestrata dalla propaganda di Goebbels, per punire quest’ultimo oltraggio degli ebrei al popolo tedesco. Ma la memoria è labile, e il bisogno di un nemico da odiare è il più grande fattore di pericolo per l’umanità.
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