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“Questo matrimonio non s’ha da fare”, lo scottante caso di Kim Davis

settembre 9, 2015 • Articoli, Politica, z in evidenza

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di Matteo Cresti

Obiezione di coscienza per i matrimoni gay?
“Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”, diceva il bravo manzoniano al povero don Abbondio. E il povero curato del paesino sul lago di Como tornava a casa con la coda tra le gambe rifiutando di celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia.

Kim Davis è per caso una nuova don Abbondio? Intanto chi è Kim Davis.
Gli Americani in questi giorni lo sanno molto bene, visto che questo è diventato un caso nazionale.

Kim Davis, 49 anni, responsabile capo dell’ufficio catasto e anagrafe di Ashland, Kentucky. È la donna che è diventata l’emblema o del fanatismo o la martire della verità.
Kim Davis, dopo aver lavorato per la madre in comune (sembra che solo in Italia possano accadere queste cose, forse è consolante che anche oltre oceano succedano: la madre l’aveva assunta con uno stipendio molto alto, come collaboratrice per l’ufficio comunale nel quale lavorava), si candida con i democratici (il partito di Obama, a favore dei matrimonio gay), per ricoprire l’incarico di capo del ufficio anagrafe (l’ufficio che rilascia le licenze matrimoniali) che nel Kentucky è elettivo. Sconfigge il rivale repubblicano per solo quattrocento voti.

Kim Davis ha alle spalle una storia burrascosa: tre divorzi e quattro matrimoni, due gemelli che sono stati riconosciuti dal secondo marito, mentre stava per divorziare dal primo, ma il cui padre biologico era il terzo. Beautiful in confronto è roba da dilettanti.

Kim Davis si converte, però. Quando la sua seconda suocere muore, si fa promettere che frequenterà la chiesa evangelica della “dura pietà”. È subito amore. Si converte. Capelli lunghi, abiti castigati, poco trucco. E così la nostra Kim con la dura pietà della parola di dio, va tutte le mattine al lavoro, e costringe i suoi colleghi ad obbedire alla Bibbia, quasi fosse la dipendente della città di dio e non della città degli uomini.
E così per obbedire alla legge del suo dio, la signora Kim Davis pensa bene di non concedere le licenze matrimoniali alle coppie gay, che in virtù della recente sentenza della Corte Suprema, possono sposarsi in tutti gli stati dell’Unione.

Le associazioni gay la denunciano, vorrebbero una multa. Ma il giudice, strano caso voglia che sia repubblicano, nominato da Bush, è molto più duro, e ordina l’arresto, “Il rifiuto di applicare leggi dello Stato, se non sanzionato, crea un precedente molto pericoloso” dice. Ma la Davis si difende: “Per me si trattava di scegliere tra l’Inferno e il Paradiso”.

La donna secondo le leggi dello Stato avrebbe avuto la possibilità di fare obiezione di coscienza, ma avrebbe anche dovuto dimettersi, cosa che lei non ha fatto. Essendo eletta non poteva essere licenziata. Avrebbe potuto essere rimossa solo con una dichiarazione di impeachment da parte del parlamento statale, cosa che difficilmente sarebbe avvenuta. Quindi il giudice si è trovato costretto a ricorrere all’arresto, rimuovendola con la forza.

La vicenda non è poi così nuova, anche nella Francia di qualche tempo fa, dopo la legalizzazione dei matrimoni gay, qualche sindaco aveva avanzato la pretesa di poter fare obiezione. Ma nell’America radicalizzata di oggi questo sta ottenendo primaria importanza.

La domanda che sorge da questa vicenda è se uno stato pluralista e multiculturale possa permettersi l’obiezione di coscienza per motivi religiosi dei funzionari pubblici, cioè di coloro che con il loro lavoro mandano avanti lo stato, garantendo tra le altre cose quel pluralismo e quella libertà di coscienza che gli stati occidentali si vantano di avere.

I garanti, così come i giudici, non possono essere di parte, altrimenti cadrebbe quel principio di equità e eguale protezione davanti alla legge, che è alla base dei nostri ordinamenti. Quando si viene eletti ad un pubblico ufficio si giura di rispettare ed applicare la legge, se questa prevede che i gay possano sposarsi, si deve obbedire.

Si faccia un caso estremo, un giudice di fede islamica estremista potrebbe avere delle remore a condannare un terrorista, ma se la legge è uguale per tutti, e ugualmente deve essere applicata, non può uscirsene e dire “Io non mi sento di condannarlo”. Se sono un sindaco non posso rifiutarmi di sposare due persone perché la mia bislacca religione prevede che i biondi non si possano sposare con i mori. Le credenze religiose sono un fatto privato, che va rispettato. Se ciò avvenisse lo stato sarebbe ostaggio delle credenze religiose di coloro che dovrebbero amministralo.

Ed è proprio questo quello che sta avvenendo in una certa America, quella più integralista e faziosa, dove non si è mai riusciti ad affrontare in modo serio il problema della laicità dello stato.
Un problema che rischia di ripresentarsi anche a casa nostra, visto il clima che si respira a Montecitorio e Palazzo Madama. Si rischia di confondere due piani della questione: la libertà dei singoli di professare la propria religione e la propria morale (finché queste non danneggino gli altri), e dall’altro la neutralità rispetto a queste questioni dello stato.

Nell’America preda degli estremisti religiosi (esiste anche un cristianesimo estremista, non molto diverso dall’islam), si rischia una frammentazione della società in micro comunità, regolate dalle proprie regole interne (tanti piccoli amish). Manca sempre di più la colla che tenga insieme tutti i pezzi del puzzle, manca un’etica pubblica del rispetto e della tolleranza. Quello che rivela questa vicenda è che coloro che dovevano applicare questa colla, l’hanno sostituita con le loro credenze private.

La crescente radicalizzazione delle nostre società, invece, non può che essere contrastata dalla creazione proprio di un’etica pubblica collettiva e condivisa, che riesca a garantire la sopravvivenza sia dalla disgregazione interna che dagli assalti degli estremismi esterni. Un’etica che non sia preda di una religione piuttosto che di un’altra, ma che riesca a garantire a tutti lo spazio per l’esercizio delle proprie intime credenze e per raggiungere la fioritura della propria individualità.

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