Populisti e qualunquismo, l’abbraccio mortale
Se la politica/Stato avesse avuto l’attenzione necessaria a influenzare le politiche pubbliche percepite come inadeguate al soddisfacimento perfino dei bisogni primari (lavoro, giustizia ecc..) dei cittadini, uno Stato attraversato da coalizioni tanto spurie quanto inconciliabili, esisterebbe nella dimensione in cui lo conosciamo? Scambi clientelari tra apparati della corruzione, diviene oggetto di lotta e pressioni esterne, che infine lo consegnano ai populismi di turno, i quali a loro vota sono incapaci di una costruzione del sociale.
E’ proprio in un clima caotico come quello che caratterizza la dimensione politica del Paese, che vi sarebbe necessità di ripensare ad una ridefinizione e miglioramento dell’Istituzione. Non in senso assolutistico, certamente. E considerando la sociologia dello Stato di Max Weber, che esso non sia un mero luogo formale di detenzione del potere, bensì luogo dove il cittadino possa trovare attraverso la rappresentanza, una zona di azione politica, orientata dalla vita politica partecipata.
Lo slittamento di paradigma in corso, della concezione “panstatalistica”, ovvero i mescolarsi di descrizione e prescrizione di giudizi di fatto e giudizi di valore, dove l’osservazione empirica e la speculazione filosofica si fondono.
E’ certamente vero che il populismo fa suoi aspetti correlati ma stravolti- Il leviatano dell’agire politico viene trasferito al popolo. Se da un lato non vi è più contenuto nell’agire politico, all’altro nel discorso della frantumazione populista del senso del concetto di Stato minimo, del resto già ampiamente voluto dal liberismo.
La politica collocandosi fuori della vita quotidiana dei cittadini, ha reso la dicotomia Stato/società obsoleta, inadeguata e quasi grottesca. Il crescente dilagare di soggetti collettivi posti fuori dalla realtà istituzionale, o che vi stanno dentro ma non la riconoscono ( vedi il M5S) , ha caratterizzato e continua a caratterizzare la politica negli ultimi anni. E se questi sarebbero potuti divenire una risorsa, divengono in realtà una situazione di mera protesta senza sbocchi.
Si consideri che, quand’anche le opinioni e i desideri dei singoli cittadini fossero dati ben precisi e indipendenti sui quali il processo democratico potesse agire, e ognuno se ne lasciasse guidare dalla propria azione con razionalità e con prontezza, non ne seguirebbe necessariamente che le decisioni politiche raggiunte mediante questo processo partendo dalla materia prima delle volizioni individuali rappresenterebbero quella che allora avremmo il diritto di definire “ volontà popolare”.
Non soltanto è concepibile, ma, quando le volontà individuali sono profondamente divise, è molto probabile, che le decisioni politiche non corrispondano affatto a “quello che il popolo in realtà vorrebbe”. (Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia)
L’aspetto più preoccupante dell’attualità politica risiede proprio nella dinamica populista con cui si svolge la vita parlamentare, che presenta molti dei caratteri tipici del popolino. In particolare il ridotto senso di responsabilità, un grado inferiore di energia intellettuale, una spiccata sensibilità ad influenze extra-logiche. Come ben diceva Le Bon nei suoi trattati di psicologia sociale, certi fenomeni non si limitano al caso solamente della folla, nel senso di agglomerato fisico di persone. Anche i membri di un partito rischiano di divenire, dal punto di vista psicologico, una folla, e cadere in uno stato di eccitazione/agitazione, in cui ogni tentativo di ragionamento logico gli venga proposto, sortisce solo l’effetto di stimolare impulsi bestiali.
E’ qui che entra in gioco la responsabilità del cittadino elettore. Bisogna constatare con una certa amarezza, che difronte all’evidente incapacità e irrazionalità politica, cittadini dotati di intelligenza, e tendenze moraleggianti, non si sentono affatto responsabili di ciò che i rappresentanti della politica fanno e dicono. Questa macabra estensione del populismo, è stata trasversale, dal berlusconismo – il mito dell’uomo che “si fa da sè, al leghismo – “padroni a casa nostra”, giungendo al grillismo – “spacchiamo tutto”, e non meno al renzismo – “Ottanta euro in busta paga”.
Un moto perpetuo da cui sembra molto difficoltoso uscire. Proprio in questo, gli elettori si dimostrano spesso giudici cattivi e corrotti come, e più dei loro governanti. E, tragicamente, anche cattivi giudici dei propri interessi lontani, giacché solo le promesse a breve termine esercitano una presa politica e una razionalità a breve termine si impone.
Il cittadino medio, o meglio, il cittadino “non educato” – nel senso in cui Norberto Bobbio intendeva, è certamente un cattivo elettore, quando entra nel raggio della politica, scende di un grado inferiore di rendimento cognitivo. Ragiona e analizza le proposte politiche in un modo che giudicherebbe infantile se applicato alla sfera dei suoi interessi concreti.
Il modo di ragionare si fa “associativo e affettivo” – volgarmente detto “di pancia”. Tanto più stenterà a vedere le cose nella giusta prospettiva o a discernere i diversi aspetti del problema, ne risulterà che il cittadino medio si dimostri più recidivo del solito nella mancanza di responsabilità, con conseguenze che in determinate condizioni, possono riuscire fatali al suo paese.
I metodi in cui i problemi e la volontà popolare vengono manipolati, corrispondono proprio alla metodologia della pubblicità commerciale – negli ultimi vent’anni i talk show sono l’anima della proposta “commerciale” politica. In questi ultimi, la volontà popolare è il prodotto, non la forza propulsiva, del processo politico.
La tecnica consiste nel far leva sul subconscio creando associazioni favorevoli o sfavorevoli e tanto più efficaci quanto meno razionali. E’ la produzione di un’opinione mediante affermazioni ripetute che garantiscono il successo del risultato nella misura i cui evitano il ragionamento, e il pericolo di svegliare la facoltà critica del pubblico – intesa come riflessione, tutto si gioca sulla velocità delle risposte. Sono forme di pubblicità politica che pretendono di rivolgersi alla ragione, sottacendo che questa è sottoposta ad un processo di destrutturazione.
E’ probabile che molti giudicheranno troppo pessimista tal modo di intendere il processo politico e le conseguenze che comporta, ma si potrebbe rispondere a costoro, di chiedersi se si è mai sentito dire che questo o quel fatto sgradevole sia meglio non renderlo di pubblica ragione, o che un certo modo di ragionare per quanto valido, non sia desiderabile o conveniente.
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