Il presidente Cota è rimasto in mutande – verdi
Roberto Cota, un Presidente non voluto e non amato, che con i suoi fedelissimi, hanno preso un palazzo dove hanno trasferito un gruppo dirigente del novarese, estraneo alla “cultura” della città.
Dire che Cota non è mai riuscito ad inserirsi, è davvero un eufemismo.Durante le manifestazioni/contestazioni dei torinesi, girando tra la folla, in particolare quella assiepata davanti al palazzo regionale, si percepivano gli “umori” dei cittadini, e anche le “chiacchere” di dipendenti regionali che lo hanno amato come si potrebbe amare l’olio di ricino.
Qualcuno diceva ad alta voce in mezzo alla folla: “c’era chi si lamentava della zarina, dicendo che era poco incline al dialogo, ma “questo” è un vero despota, pensa che la regione sia sua, ma noi dobbiamo rispondere, non abbiamo paura di lui”.
Ricordiamo la nota vicenda della vittoria elettorale “farsa” di Roberto Cota, che dopo mesi di travagliate vicende giudiziarie, in un desolante panorama di illegalità, ha avuto risalto sui media, grazie alla perseveranza dell’ Avvocato Alberto Ventrini dei Radicali Italiani, e la costituzione di parte civile avanzata dal gruppo radicale per reato di falsificazione delle firme di alcuni candidati della Lista “Pensionati per Cota”.
La Lista appoggiava il candidato del centro-destra Roberto Cota, aveva raccolto circa 27.000 voti alle scorse elezioni regionali in Piemonte; lo scarto con la Bresso è stato di circa 9.000 voti. La questione ha avuto un corso e tempi piuttosto lunghi, e del resto i radicali avevano a suo tempo denunciato Michele Giovine che era già stato processato in passato per aver raccolto migliaia di firme irregolari a sostegno della sua lista per le elezioni regionali del 2005, quindi Cota sapeva con chi si alleava.
Poi insediatosi il neo-presidente aveva iniziato subito la crociata contro la RU486, la famosa pillola abortiva, tentando di inserire i comitati pro-vita all’interno dei reparti di ginecologia, modificato il protocollo regionale sull’interruzione di gravidanza stravolgendolo, un chiaro tentativo di aggirare la 194.
Inoltre pare che difronte alla mancanza di fondi per i pannolini che erano stati promessi allora alle famiglie, i leghisti avessero deciso di decurtare i soldi dal budget destinato ai disabili psichici (sic), e difronte alle contestazioni dichiararono che si trattava di un “prestito” temporaneo. Come se non bastasse minacciarono di denunciare gli esponenti della sanità piemontese che a suo dire avrebbero dichiarato il falso circa i tagli apportati al bilancio, per tale motivo annunciarono denunce agli eventuali giornalisti che avessero scritto qualcosa che a lui non piaceva, ovviamente il solito tentativo di imbavagliare l’informazione.
Insomma, i dolori del povero Cota sono numerosi. Figurarsi che effetto vedere la città invasa dal sentimento nazionale, un patriottismo trasversale a destra e a sinistra, in una Torino orgogliosa della sua “cultura” (speriamo che questa parola da loro odiata gli faccia venire l’orticaria).
Per non parlare della storia sociale di Torino, che ha vissuto le difficoltà dell’integrazione tra nord e sud negli anni dell’immigrazione meridionale, e che è perfettamente riuscita nonostante le differenze. Una città che ha visto la mutazione in positivo anche del più antico quartiere cittadino: “San Salvario”, ieri bacino dell’immigrazione straniera e portatore di grandi difficoltà, oggi quartiere che ha fatto della multietnicità il suo punto forte, dove l’incontro tra culture, inizia dalla scuola materna Margherita Buy, dove fino a dieci anni fa nessun italiano avrebbe iscritto i figli, e che ora registra il tutto esaurito, perchè la media borghesia torinese ha aumentato esponenzialmente la domanda.
L’orgoglio dei torinesi, consiste nel vivere in una città in cui ognuno riesce a suo modo, con le sue peculiarità a riconoscersi. Una città, una comunità che arrivano dagli anni del fordismo, e ne sono l’emblema del superamento.
Certamente non saranno i leghisti a cambiare la cultura di accoglienza di questa regione, e lo smacco che la lega xenofoba ha avuto in questo inaspettato momento, non lo potrà risolvere semplicemente con il gridando all’ingiustizia e stracciandosi le vesti verdastre, mutande comprese.
La Lega è sempre stata portatrice di un federalismo per dividere, non per unire, che ha creato un clima patologico, virale. Un clima nel quale si legittimano azioni criminali come quelle di respingere i barconi pieni di profughi fuggiaschi da guerre e violazioni dei più elementari diritti umani.
Altresì non si dimentichi che la “democrazia costituzionale”, è un sistema politico complesso che diventa efficace a patto che si articoli nelle dimensioni corrispondenti ai diritti fondamentali in essa stipulati: la “democrazia politica”, che è assicurata dalla garanzia dei diritti politici nella sfera delle istituzioni rappresentative.
La “democrazia civile”, assicurata dalla garanzia dei diritti civili nella sfera del mercato. La “democrazia liberale”, assicurata dalla garanzia dei diritti di libertà. La “democrazia sociale”, assicurata dai diritti sociali. In questo risiede il tratto distintivo della democrazia costituzionale.
Questi sono tratti ed elementi fondanti di un’idea di democrazia di cui la Lega razzista e xenofoba non è portatrice. Ma citando il “Nabucco donosor”, di cui i leghisti hanno tentato di impossessarsi, travisando- non conoscendolo-il significato.
E’ venuto il giorno in cui “i perfidi cadono come locuste al suol”; nel frattempo non si illuda il Governatore Cota, non è sufficiente governare ed essere autoritari per trasformare o comprendere la cultura (non è una parolaccia) di una città come Torino, che ha nel suo Dna il Risorgimento e l’Unità Nazionale, dove proprio da San Salvario (il più antico quartiere nel centro storico, oggi modello di integrazione), sono partiti i moti carbonari. La città, è sempre stata ben forgiata per sconfiggere il tentativo leghista di separatismo.
Ora si faccia da parte e dimostri di avere un minimo di buon senso, anziché urlare al complotto.
Come diciamo noi piemontesi: “ca vada a pieslu n’ tla giaca monsiu”.
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