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Primarie e oligarchie di partito

dicembre 1, 2013 • Articoli, Politica, z editoriale

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“Le fasi precedenti al voto e il ruolo di oligarchie e lobby. Una riflessione sulle primarie del PD a partire dal ruolo che queste hanno avuto in altri contesti, primo fra tutti quello statunitense”.

Attraverso la conquista del suffragio universale, concepito come “eguale”, cioè un sistema in cui tutti i voti hanno eguale valore, si potrebbe sostenere che la fase del voto abbia raggiunto la piena democratizzazione. In realtà la compiuta democratizzazione di un sistema politico, passa necessariamente attraverso due fasi precedenti al voto: una è quella della disuguaglianza economica, e l’altra quella della scelta dei candidati. Anche se appare scontato che chi possiede maggiori risorse economiche possa meglio finanziare se stesso o un candidato gradito esercitando maggiore influenza sull’esito delle elezioni, accade spesso di sentir affermare che rispetto alle elezioni, tutti i cittadini sono uguali, questa tesi però e fallace, poiché focalizza l’attenzione solo al momento del voto, non tiene conto dell’importanza delle fasi precedenti, in particolare la ricerca di denaro necessario al sostenimento delle spese elettorali.

Si tratta quindi di mettere in evidenza il peso crescente che ha il denaro nella politica, e il fatto che aumenta il vantaggio dei ricchi nella competizione per il potere, senza per questo pensare ad una moltiplicazione delle cariche elettive, ma piuttosto  fare in modo che l’accesso a quelle che già ci sono sia il più aperto possibile e non soggetto a monopolizzazione delle grandi ricchezze. Secondo Kelsen, la democrazia rappresentativa – la “libertà politica” – non può ridursi al solo diritto dei cittadini di eleggere il parlamento, ma deve essere quella forma di governo in cui tutti i cittadini possano diventare governanti, con la stessa possibilità di entrare a far parte degli organi che esercitano il potere; definizione questa che ci permette di constatare che l’accesso al potere non può essere uguale per tutti se nella gara per entrare a far parte di questi organi i cittadini non partono in condizioni di eguaglianza nelle opportunità

.Del resto questo sguardo “verso il basso”, ossia verso i cittadini considerati come elettori, non è sicuramente una questione sollevata esclusivamente da Kelsen, è opinione diffusa tra gli studiosi, a prescindere dal modo con cui definiscono la democrazia; per esempio Bobbio distingueva la democrazia diretta degli antichi da quella indiretta e rappresentativa della modernità, sostenendo che, mentre nella prima “i cittadini hanno il diritto di prendere essi stessi le decisioni che li riguardano”, nella seconda “hanno soltanto quello di eleggere le persone che decideranno per loro”. E qui ritorna scottante il tema della rappresentanza e della possibilità di scelta dei candidati da parte dei cittadini nell’attuale sistema elettorale in Italia, che privando il cittadino di questa possibilità, intacca gravemente il sistema democratico. Può essere d’aiuto uno sguardo all’America di inizio Novecento, quando Ostrogorski soteneva polemicamente che le corporation riuscivano a predeterminare le composizioni dei consigli comunali intervenendo con denaro e uomini nelle primarie, al fine di stabilire quali candidati compiacenti dovessero emergere (Ostrogorski– La Dèmocratie et l’organisation des partis politiques), e dato per scontato che era troppo costoso comprare tutti i singoli membri delle assemblee, le corporation procedevano a finanziare direttamente le macchine dei partiti, i quali sottoponevano a controllo deputati e senatori, sui cui facevano presa attraverso il sostegno economico della campagna elettorale. 

La condanna di James Bryce a tale sistema è totale, in quanto attraverso il sostegno economico che domina le macchine partitiche, è evidente che i ricchi impongono ai partiti medesimi la scelta di candidati da loro desiderati, e anche se non illegale, è un sistema che assegna un privilegio alla ricchezza e non a maggiori attitudini di merito.In tale sistema, i gruppi di interesse e le lobby sono considerati soggetti in grado di esercitare “pressione” sugli eletti, al fine di ottenere decisioni da loro desiderate. Il fatto positivo è che negli Stati Uniti il sistema delle lobby ha la peculiarità di essere dichiarato e trasparente, contrariamente a quanto è sempre stato nel nostro paese, dove il termine “lobby” evoca uno scenario negativo (a torto o a ragione lo vedremo più avanti). Come sostengono gli osservatori della politica americana, sempre più l’esito delle elezioni viene predeterminato, prima ancora che gli elettori abbiano la possibilità di pronunciarsi, dalla selezione effettuata a Washington dai lobbysti che decidono chi avrà i fondi necessari per fare la campagna elettorale. A tale proposito è peculiare quello che accade in America rispetto alle contestazioni sulle politiche in materia sanitaria proposte da Obama, dove si riscontrano molte opposizioni anche negli “Stati blu” che sono stati suoi sostenitori prima delle elezioni. La monopolizzazione degli schermi televisivi ha spiazzato la strategia di comunicazione del presidente. Si pensi al riaffiorare delle associazioni e i think tank dei neoconservatori, le manifestazioni contro Obama sono state sponsorizzate inoltre dalla Freedom Works Foundation e da Americans for Tax Reform, che è il bacino dove arrivano tutti i finanziamenti delle lobby.

Contro la proposta di riforma sanitaria obamiana si sono scagliate le assicurazioni, gli ospedali privati, le industrie farmaceutiche,  e la classe medica; tutte lobby in grado di influenzare l’agenda politica (si consideri che è un paese in cui non esistono limiti di finanziamento alle campagne elettorali). Nonostante Obama sia un ottimo comunicatore e i sondaggi diano in risalita la sua politica di riforma, la situazione si fa sempre più difficile per lui, perchè la destra sa come indebolire la sua comunicazione anticipandolo attraverso giornali e telegiornali, dove gruppi organizzati spostano il focus dell’attenzione da quelli che sono i “contenuti” della riforma, concentrandosi invece su questioni a base demagogica tipo “l’eutanasia di Stato” sulle persone anziane, o incentivi del sistema pubblico agli aborti.

Inoltre giocano d’anticipo sulla questione degli sgravi fiscali, che era stato un regalo di Bush ai più ricchi; si stanno mobilitando nonostante Obama avesse detto di voler lasciare invariata la pressione fiscale a ben il 95% dei contribuenti, si è avviata insomma, una “guerra preventiva” contro quella che pensano sia una visione troppo “socialista” della politica dei democratici. In base a queste considerazioni, abbiamo che, in tutti i casi in cui la direzione dei partiti, il possesso di ricchezze e il controllo dei mezzi di comunicazione di massa sono in mano alle lobby, si conferisca inevitabilmente a minoranze di cittadini un potere maggiore sia nella fase precedente il voto, che in quella che avviene nella scelta dei candidati, dove si raccolgono e destinano i fondi per le campagne elettorali, e non meno la fase ultima in cui gruppi dirigenti di partito, lobby e mass media determinano le condizioni degli eletti. Inoltre anche gli economisti di Stanford avevano cominciato finalmente a dire che continuando a lasciare che siano le lobby a dettare l’agenda politica, ci sarà un reflusso della crisi economica, con conseguenze gravissime per tutta l’economia. Che senza le riforme si rallenterà moltissimo la crescita e vi sarà ulteriore dissipazione della ricchezza da parte di soggetti inseriti nella finanza, considerati mine vaganti contro la ripresa, in quanto molto abili a inventare sistemi per far soldi (senza far nulla di concreto) attraverso speculazioni.

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Per quanto riguarda il panorama italiano, non siamo certo esenti dai rischi conseguenti a influenze sulla politica da parte dei “gruppi di interesse”, si pensi che una delle più autorevoli fonti del pensiero democratico moderno, cioè Rosseau, sosteneva la necessità di creare lo stato sociale attraverso un “contratto sociale”, a mezzo del quale gli individui potessero dar vita ad un “corpo collettivo” composto da cittadini e dotato di una “volontà generale” che doveva avere come fine “il bene comune”. Ma, sosteneva Rosseau: “per avere la schietta enunciazione della volontà generale è dunque importante che nello Stato non ci siano società parziali, e che ogni cittadino pensi solo con la propria testa”.

Secondo Bobbio negli stati democratici avviene esattamente il contrario. Contro l’ideale di una società che non sia caratterizzata dai corpi intermedi, tra gli individui e lo stato, in realtà nella democrazia moderna si sono moltiplicate le società atomizzate. A questo punto è necessario riconsiderare la teoria della rappresentanza, infatti secondo la teoria classica della “rappresentanza politica”, i membri del parlamento sono tenuti a rappresentare gli interessi generali della nazione, pertanto non devono essere soggetti ad alcun mandato imperativo. Invece nelle società composte da piccoli gruppi, si impone perentoriamente la “rappresentanza degli interessi”, in virtù della quale si perseguono gli interessi particolari del gruppo, che vincola i rappresentanti a istruzioni dettate dal gruppo medesimo (si pensi agli out-out di Confindustria quando il governo ha cercato di inserire maggiori tutele per la sicurezza sul lavoro). Ovviamente tutto questo rende molto complessa e ambigua la figura del rappresentante.

Se un membro del parlamento è già tenuto ad obbedire alla disciplina di partito, ma si sente anche rappresentante degli elettori del proprio collegio (direi che in Italia il problema del collegio grazie all’attuale sistema elettorale ,è superato, ma non certo in positivo), sarà tenuto a rispondere loro delle sue azioni; se è sottoposto al “mandato imperativo” di qualche gruppo di interessi, si corre il il rischio che i diversi mandati possano essere in contrasto tra loro. E poiché ogni gruppo persegue i propri interessi particolari, colui che ne è il rappresentante, è sempre investito di un mandato imperativo. Di conseguenza i caratteri della rappresentanza vengono fatti propri da coloro a cui la dottrina tradizionale assegna il compito di rappresentare l’interesse generale, cioè fra i membri del parlamento.

Arthur Benteley, che è stato il fondatore della “teoria dei gruppi di pressione”, sosteneva che coloro che immaginavano i governanti come uomini saggi intenti ad ascoltare soltanto la voce della ragione, erano degli ingenui. I parlamenti, al contrario, sono sottoposti ad ogni genere di pressione e non si curano da che parte arrivino, ma solo della forza che esse esprimono. l’intera vita sociale in tutte le sue fasi può essere definita in relazione a tali gruppi di uomini attivi, anzi essa deve essere definita in questo modo se si vuole condurre un’analisi utile” (Benteley, The Process of Governement. A Study in Social Pressures, The University of Chicago Press 1908). La politica viene così intesa come il risultato delle pressioni che i vari gruppi si impongono a vicenda. In una tale situazione, la figura del “rappresentante”, cioè colui al quale viene affidato il potere di decidere liberamente nell’interesse generale, o è praticamente scomparsa, o peggio, non è mai esistita, il membro di un parlamento è sostanzialmente un mero delegato.

La teoria di Benteley è poi stata rivisitata, perchè aveva la lacuna di non fare distinzione tra le diverse specie di gruppi, e quindi solo parzialmente utile per lo studio delle società. Infatti Pasquino ha poi ridefinito i gruppi di pressione come “gruppi organizzati” che a differenza dei pariti non partecipano direttamente al processo elettorale, e non sono interessati ad una gestione autonoma del potere politico, perchè possono accedervi facilmente e di frequente ad influenzarne le scelte. Tutti gli studiosi sono concordi nel sostenere che i gruppi di interesse non attendono la conclusione delle elezioni per influire sulle decisioni dei vincitori, bensì intervengono prima, condizionando la scelta dei candidati da parte dei partiti e attraverso il finanziamento della campagna elettorale dei candidati graditi, sulla scelta dei dirigenti dei partiti e sulla definizione dei programmi.

L’ intervento (….) può avvenire concretamente a livello elettorale (ad esempio, nel momento delle candidature, della campagna vera e propria e dell’appoggio a certi candidati); a livello interno del partito (ad esempio, con la presenza di esponenti del gruppo negli organi o nelle assemblee del partito); a livello delle dichiarazioni programmatiche (magari attraverso informazioni e posizioni suggerite dai gruppi ai relativi organi del partito); a livello decisionale, sia parlamentare, in aula e in commissione, che governativo (ad esempio, con interventi diretti di esponenti del gruppo su parlamentari e ministri)”.
“D. Della Porta, M. Cotta, L. Morlino; Scienza politica, il Mulino, Bologna 2001” 
A questo punto è lecito chiedersi se le primarie possano o meno essere un rimedio che consenta di sottrarre la scelta dei candidati alle oligarchie che governano i partiti, affidandola alla massa degli iscritti.

Le primarie, hanno avuto la loro prima applicazione negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, e fin da allora gli osservatori hanno manifestato grande scetticismo nei confronti di questa procedura oggi utilizzata anche nel nostro paese. La critica nasce dalla premessa che i gruppi dirigenti dei partiti sono abbastanza forti da riuscire ad imporre anche nelle primarie i loro prescelti, attraverso un semplice espediente: si riuniscono in modo informale prima che avvengano le primarie, scegliendo i candidati desiderati, e che dovranno quindi vincere grazie alle mosse necessarie affinchè arrivino alla vittoria, facendo convergere su questi il voto degli iscritti.
Il vero scopo delle primarie sarebbe quello di far si che sia restituita la scelta dei candidati alla massa degli iscritti che così spodesterebbero le oligarchie di partito. Ma ovviamente le oligarchie reagiscono anticipando la scelta ad un momento ancora anteriore alle primarie, lavorando al successo dei propri prescelti ben prima che le urne siano aperte ai voti della base del partito. E anche se le primarie consentono agli outsider di sfidare i candidati di sfidare l’oligarchia dominante, questa è sufficientemente forte da neutralizzare il pericolo.

Inoltre poiché le campagne elettorali costano, e anche il voto delle primarie è preceduto da una campagna elettorale, questo dato consente maggiore garanzia di vincita ai contendenti sostenuti dai capi del partito, che sono avvantaggiati rispetto agli outsider (a meno che questi non dispongano di una notevole fortuna personale).
Osserva Bryce: “Spesso regolate minuziosamente dalla legge, le primarie sono un meccanismo complicato che i politici di professione imparano a rapidamente a maneggiare e a volgere a proprio vantaggio.
Le “macchine” dei partiti, che le primarie avrebbero dovuto sconfiggere, reggono alla prova e consolidano sempre più il loro potere”. Infatti già verso la fine dell’Ottocento, cresce negli Stati Uniti il malcontento nei confronti dille macchine di partito che con abusi vari riescono a imporre nelle assemblee e nelle convenzioni i candidati desiderati.

Allo scopo di tutelare il diritto del popolo sovrano ad eleggere i titolari delle cariche pubbliche, nasce un movimento di riforma che attraverso il legislatore stabilisce norme rigorose per garantire ai cittadini una reale partecipazione alla formazione delle candidature.
Ma secondo Ostrogoski lo slate (lista dei candidati alla candidatura) deciso dietro le quinte, va ad inficiare inevitabilmente il risultato, che viene messo così fuori dalla portata del legislatore. 
Abbiamo osservato all’inizio di questa analisi, che nelle elezioni per le cariche pubbliche gli elettori hanno una possibilità di scelta limitata, solitamente tra i candidati scelti in precedenza dai partiti o dai loro gruppi dirigenti. Abbiamo inoltre detto che il fenomeno elettorale è suddiviso in due fasi: nella prima i partiti nominano i loro candidati, nella seconda gli elettori scelgono tra questi candidati. Questo sappiamo che avviene anche per le elezioni primarie. Tutto ciò dimostra che in ogni elezione, si tratti di primarie o elezioni, se per democratizzazione intendiamo il completo trasferimento del potere di scelta dei candidati dai pochi ai molti, ne deduciamo che tale trasferimento non si realizzerà mai completamente.

Se ogni elezione si suddivide nelle famose due fasi, possiamo definire la prima fase oligarchica, e la seconda democratica. La distinzione dei due momenti è un problema strutturale, infatti qualsiasi tentativo si attui al fine di sopprimere la distinzione affidando la funzione della “proposta” al popolo sovrano, questa verrà eliminata dalla continua rinascita di minoranze organizzate che si impadroniranno della funzione. Come ha sottolineato Weber: “ la popolazione tende liberamente a dividersi in una minoranza politicamente attiva e in una maggioranza politicamente passiva: in tutti i gruppi di una certa ampiezza (…) l’attività politica si configura necessariamente in un’attività di interessati”. Questa è la divisione dei cittadini dotati del diritto di voto in elementi politicamente “attivi”, e politicamente “passivi”.

Per quel che concerne le imminenti primarie del Pd, lo scenario si presenta ulteriormente fosco. Se è vero che tra i tre candidati, Cuperlo, Renzi e Civati, si presume possa avere la meglio Renzi, questo molto probabilmente avrà vita dura a governare un partito la cui sovrastruttura è mantenuta (anche economicamente) dall’oligarchia dalemiana. Oligarchia che non permetterà al probabile nuovo leader di governare. Del resto l’atteggiamento fortemente ostruzionistico è già stato messo in atto in questa fase pre-elettorale. Questo farà si che il nuovo segretario del Pd diventerà il parfulmine delle future immobilità del Pd, e che questo favorirà l’ascesa dei partiti populisti e demagogici quali il Pdl e i Cinque Stelle, i quali andranno all’attacco e raccoglieranno i frutti dell’ulteriore malcontento degli elettori del Pd – che già ha un perdita di consenso a causa dell’attuale governo delle larghe intese – che altro non è che il “governo dell’ indistinzione dei ruoli”.

Del resto l’estrema personalizzazione della politca renziana, non fa che alimentare il sospetto di essere la continuazione della strategia berlusconia, cioè di mascheramento di una sostanza inesistente, e questo certamente è ciò che impedisce a Renzi un consenso più ampio a sinistra. E la questione primarie non fa che evidenziare la vacuità di un partito che per eleggere il proprio segretario si avvale di uno strumento – che come abbiamo detto – è inattendibile a causa della forte influenza delle oligarchie stesse. Insomma, lo scenario è poco rassicurante, considerata la tendenza in tutta Europa da parte dell’elettorato a spostarsi verso movimenti autoritari e populisti, mantenendo la situazione italiana in stallo fino alle prossime elezioni, il rischio della rinascita della destra è tutt’altro un chimera.

 

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One Response to Primarie e oligarchie di partito

  1. Elena Saita ha detto:

    Vien voglia di piangere … insomma quando le ‘scimmie nude’ si trovano a dover risolvere problemi complicati non sanno più a che santo votarsi! Un sistema potrebbe esser quello di dimensionare la potenza delle lobbies! I ‘loro uomini’ sono infatti nei collegi di amministrazione delle più grandi compagnie e sono sempre gli stessi. Eliminare il potere dei nuovi imperatori non sarebbe male. La politica dovrebbe mettere un freno alle loro dimensioni. Seconda cosa, le Primarie hanno un senso per i candidati presidenti ma NON nei partiti per i segretari … dovrebbe essere un problema da risolvere internamente.

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