Capitalismo flessibile e metamorfosi del lavoro.
La realtà del mondo del lavoro, è una crisi economica profonda voluta da un sistema finanziario liberalizzato e disfunzionale alla crescita, e che viene usata per una forzata riconfigurazione dello stato e della democrazia basata sui diritti così come l’abbiamo conosciuta. Tutto grazie al trasferimento di denaro ai creditori finanziari e che scarica sulla testa dei cittadini il costo della decrescita, quello a cui stiamo assistendo è un vero e proprio processo di espropriazione finanziaria. L’ossessione dimostrata in questi mesi per il lavoro, il costo dei salari e i licenziamenti facili, ne è la dimostrazione. Per il liberismo questa crisi creata dai mercati finanziari, è un’opportunità eccezionale per imporre trasformazioni che sarebbero impossibili in un contesto diverso.
Purtroppo questo è il risultato di un gap in questi anni tra la politica e gli scienziati sociali o intellettuali che dir si voglia. E’ necessario ricostruire immediatamente un dialogo strutturato tra movimenti sociali, partiti e intellettuali per arginare questo smantellamento del lavoro e dei diritti dei cittadini. Ricordiamoci che il “diritto”, è una forma di protezione per il debole, in virtù del fatto che questi non ha “potere”. Diversamente da chi ha “potere”, quindi non ha bisogno di diritti, al massimo deve avere degli obblighi.
La flessibiltià, intesa come idealtipo del riformismo contemporaneo, è la variabile dipendente dei processi di ristrutturazione a livello mondiale, dei processi produttivi e del lavoro così come lo abbiamo conosciuto nel recente passato, nel periodo intercorso tra la produzione fordista e post-fordista.
Alla luce della imminente riforma in materia di lavoro, e, premesso che sono da considerarsi positive oltre che auspicabili tutte le forme di intervento finalizzato alla “riduzione del danno” (fexicurity), soprattutto protese alla diminuzione delle molte insicurezze che delimitano il sottile perimetro della precarietà di cui sono investiti i lavoratori flessibili; occorre però, una visione comparata che non può prescindere dagli aspetti più duri e gli esiti negativi del “capitalismo flessibile”. Che altresì, non può non tenere conto che con il declino e la fine della produzione di massa, l’aspetto “distributivo” richiede un esercizio obbligato delle funzioni produttive.
Tali funzioni produttive hanno visto una profonda metamorfosi nel passaggio alla “produzione snella”, un modello organizzativo che si basa sulla metodologia del “just in time” (giusto in tempo), che permette di produrre solo su commesse, quindi funzionale all’esigenza dell’impresa di ridurre il costo diretto e indiretto del lavoro, adeguandolo alla produzione e alle vendite; questo in base alla motivazione addotta da parte delle aziende, di reggere alla competizione dei mercati internazionali e ridurre il rischio d’impresa.
Da questo nasce dunque la richiesta di “lavoro flessibile” da parte delle imprese, la tanto citata “globalizzazione”, è da intendersi come la conseguenza di una “riorganizzazione” (voluta) della produzione, proprio secondo il principio del “giusto intempo”. Non è affatto vero che esiste un processo universale detto globalizzazione nato dal nulla e che obbliga le imprese ad adeguarsi, questa è sì un fenomeno universale, ma ha lo scopo di estromettere dal processo produttivo condizioni di lavoro conquistate in passato nei paesi industriali avanzati; condizioni che hanno permesso salari migliori, contratti a tempo indeterminato, e vincoli legislativi al licenziamento; tutto attraverso forti tutele sindacali.
La riforma del lavoro attuata dall’ ex governo Monti, prevede il contratto unico, il tempo indeterminato dopo i 3 anni di prova, e il reddito minimo, che in Italia contrariamente al resto d’Europa non è mai esistito (soprattutto nei lavori a progetto). E’ previsto inoltre un salario sopra i 25 mila euro per i contratti a termine, con l’eventuale trasformazione in “Cui” se tali contratti avranno una paga lorda inferiore a 30 mila euro.
Fino ad ora, la quantità elevata di tipologie di contratti (più di 40) ha facilitato una flessibilità della produzione a vantaggio dell’impresa, che la pone come una “necessità”. Attraverso le due principali forme di flessibilità: “dell’occupazione” e della “prestazione”; nonché grazie alla quantità di “contratti atipici”, l’impresa ha acquisito un ampio margine manovra. In questo supportata dalla “flessibilità” in entrata, che è già complementare a quella in “uscita”, ma ancora prevalentemente a livello collettivo. Lo scopo è renderla definitivamente applicabile a livello individuale.
Questo dovrebbe indurre a temere che le imprese qualora andasse in porto il progetto del periodo di prova di tre anni e le due opzioni: assunzione a tempo indeterminato (entro lo scadere del triennio), o licenziamento, vi sarà un aumento dei licenziamenti entro i primi tre anni. Il tutto supportato dal fatto che la fusione di piccole imprese, che grazie al tetto dei 50 dipendenti, non dovranno sottostare alle regole dell’art. 18; considerando l’elevato numero di medie e piccole aziende che c’è in Italia, è evidente che sul fronte della “libertà di licenziamento”, verrà fatto un bel regalo all’impresa attraverso lo “svuotamento” dell’art. 18. Sta prevalendo la logica (in atto già da un ventennio) che l’efficienza organizzativa vada ricercata nella deregolazione del mercato del lavoro.
Prevale una visione che tende al superamento dell’ art. 18, sostenuta dalla tesi che i contratti atipici non sono la conseguenza di un legislatore malevolo, ma soprattutto non sono la causa della diffusa condizione di precarietà, anzi, sono funzionali a combattere il lavoro sommerso. Poiché le statistiche usate in modo arbitrario sono da considerarsi un vero strumento politico, è necessario chiarire che la stima sull’economia sommersa ci indica che questa contribuisce all’universo del “lavoro flessibile” con quasi 1,8 milioni di occupati irregolari a tempo pieno; più tre milioni di persone con occupazione parziale non dichiarata (spesso con secondo lavoro in nero). Per un totale di 1 milione di unità di lavoro (L.Gallino 2009) quindi, l’occupazione flessibile-regolare e irregolare, interessa in Italia tra i 7 milioni e 8 milioni di persone, oltre tre milioni di doppiolavoristi non dichiarati, pari a 1 milione di unità lavoratori a tempo pieno. In totale le persone coinvolte in varia misura nell’occupazione “flessibile” ammonterebbero a 10-11 milioni (L. Gallino, Il lavoro non è una merce).
Chissà perchè, statistiche volutamente grossolane vengono edulcorate da politici, giuslavoristi e giornalisti, i quali sostengono autorevolmente che i lavoratori precari sono al massimo 700.000.
Il focus andrebbe spostato sull’aspetto deregolativo del mercato del lavoro, che ha messo in forte competizione i lavoratori dei paesi avanzati che hanno faticosamente conquistato condizioni di lavoro migliori e salari decenti, con i lavoratori dei paesi in via di sviluppo che lavorano senza diritti e con salari bassissimi.
Rispetto al tanto citato modello danese, di protezione “non rigida” del lavoro, conosciuta come Flexicurity, secondo il quale proteggere chi ha un lavoro stabile innalza barriere verso chi non ce l’ha, è da considerare che in realtà questo è dovuto al rapporto “causa-effetto” della deregolazione del mercato del lavoro. Inoltre se l’elemento base della Flexicurity (in Europa) sta nel fatto che questa è stato un “compromesso storico”, il cosiddetto “sistema tripartito” tra imprese, sindacati e Stato, è altrettanto vero che si basa sulla premessa che lo stato (a fronte del fatto che le imprese hanno la massima libertà di licenziamento), si fa carico del 90% dell’ultimo salario, almeno per i redditi bassi; Sempre in Danimarca il 13% delle forze lavoro porta a termine ogni anno, un corso di addestramento professionale continuo (L. Gallino 2009), in Italia, per i soli lavoratori dipendenti una quota analoga corrisponderebbe a oltre 2 milioni di persone.
Ora, poiché ogni riforma va fatta tenendo conto del contesto sociale, storico ed economico di un paese, viene spontaneo chiedersi se non si sia proceduto in senso inverso: prima creando precarietà e disoccupazione, ora scopiazzando sistemi come quello danese che da noi è inattuabile, almeno per ora. Poiché la possibilità che un lavoratore licenziato possa riconvertire le sue competenze in un nuovo lavoro, sono pressochè nulle visto che l’impresa non investe in formazione e ricerca, soprattutto su chi sa che verrà licenziato.
Sarebbe necessario fare corsi di formazione permanente per chi lavora e corsi di riqualificazione a chi è disoccupato. Per non parlare del fatto che la Flexicurity richiede risorse non indifferenti: tra il 3 e il 4% del Pil di un paese, e un Wlfare State oneroso, che può garantire servizi gratuiti a tutti, scuole ospedali; tutto attraverso livelli di tassazione che sfiorano il 50% del Pil e una soglia quasi inesistente di evasione fiscale (circa il 5%).
Poiché ognuno è il prodotto della sua storia, in Italia è difficile ipotizzare che la libertà di licenziamento produca opportunità di lavoro, soprattutto considerando il fatto che è un paese in cui contano di più lo status di ascrizione e le reti famigliari, che non quelle lavorative. Dove la mobilità sociale è bassissima, pensare che la perdita di reddito crei un rapporto virtuoso tra efficienza ed efficacia, è davvero un ossimoro.
La priorità sarebbe semmai la democratizzazione-civilizzazione dell’agire economico (solo allora si potrà parlare dell’abbattimento di eventuali tabù), presupposto per fare riforme del lavoro che favoriscano la crescita dell’occupazione, la competitività delle imprese , la tutela dei lavoratori e soprattutto lo sviluppo del paese.
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