Social card, effetto collaterale dell’ignoranza politica
La crisi occupazionale che colpisce la società salariale (e non), spinge i pubblici poteri a cercare nuove – vecchie soluzioni.
Una classe dirigente ignorante e sorda alle problematiche sociali quali l’aumento della povertà, e della disoccupazione che essa stessa ha contribuito a produrre, non poteva far altro che proporre una “nuova social card”. Ricordiamo la precedente voluta da Tremonti, di 40 euro al mese a sostegno agli indigenti. Il dato fondamentale da cui partire per valutare l’efficacia di una misura di contrasto alla povertà, è che nelle nostre società europee, la crescita del numero degli assistiti è una conseguenza diretta della disoccupazione, in modo particolare in Italia, dove le politiche di sostegno alla povertà, non sono certo esemplari.
L’inadeguatezza di questa nuova misura che avrebbe la velleità di contrastare la povertà, è esplicata nella sua limitatezza, in riferimento alla selettività dei presunti beneficiari.
Essendo destinata ad un numero circoscritto di persone rientranti nell’area della “povertà assoluta”, cioè soggetti con un Isee di 3 mila euro, con nessun membro che svolge attività lavorative, e almeno uno dei componenti della famiglia che abbia cessato l’attività lavorativa negli ultimi tre anni, o nei sei mesi precedenti la presentazione della domanda, ed un reddito inferiore a 4 mila euro.
E’ deducibile da questi parametri, l’inadeguatezza della social card, che escluderebbe un’ampia fascia di nuovi poveri, come chi ha accesso solo a lavori in nero e sottopagati, chi non mai riuscito a entrare nel mercato del lavoro, e le “partite Iva forzate”, cioè precari che il lavoro lo hanno perso, ma non essendo considerati salariati, non possiedono il requisito d’accesso.
Inoltre ora i fondi sono abbastanza consistenti da poter garantire un sostegno in modo più capillare e non così categoriale, cosa che per giunta crea “discriminazioni tra poveri”. Si consideri che è a rischio di povertà ed esclusione sociale il 29% dei residenti in Italia (secondo un dato del 2012, in aumento rispetto a 12 mesi prima), in base ad un indicatore derivato dalla combinazione del rischio di povertà – calcolato sui redditi del 2011, della severa deprivazione materiale e della bassa intensità di lavoro.
L’indicatore adottato da “Europa 2020”, viene definito dalla quota di popolazione che sperimenta almeno una delle suddette condizioni. La metà delle famiglie in Italia, ha percepito nel 2011 (allo stato attuale i dati saranno presumibilmente peggiorati) un reddito non superiore a 24.634 euro all’anno.
Alla luce di questi dati, sarebbe fondamentale che la politica mettesse il focus sul fatto che la disoccupazione produce un declassamento per gli individui che ne fanno esperienza, oltre ad un sentimento di sconfitta quando la mancanza di lavoro è prolungata nel tempo. Si viene a creare un indebolimento dei legami sociali dovuto all’abbassamento del tenore di vita, questi possono arrivare anche alla totale rottura sociale. Gli studiosi di scienze sociali, evidenziano l’altissima percentuale di casi in cui questo conduce alla povertà estrema, dalla quale non si riesce più ad uscire, e che misure inadeguate quali la social card, non servono che a reiterare lo stato di indigenza e di inadeguatezza che i soggetti vivono.
Il concetto di “squalificazione sociale” indica che l’espulsione dal mercato del lavoro e la relazione con l’assistenza, è causa di un fattore evolutivo della povertà. L’immagine predominante della povertà, è quella associata all’impoverimento per “caduta”. Cioè il povero declassato che ha perduto il suo statuto sociale ed è vittima di difficoltà che non aveva mai incontrato prima. Nelle società industriali che in passato avevano raggiunto una piena occupazione e crescita economica, la maggior parte degli individui avevano sperimentato il benessere economico, e la percezione della povertà era labile, come se si trattasse di un fattore sociale residuale. Oggi ci troviamo difronte ad una disoccupazione strutturale e una precarietà occupazionale che riportano drasticamente al vecchio concetto di pauperizzazione.
Nei paesi poveri, la povertà viene invece percepita come uno stato permanente, riproducibile, tanto ineluttabile quanto integrato nel sistema sociale. Negli ultimi anni, c’è stato un avvicinamento tra paesi poveri e paesi ricchi, grazie al fatto che si sono messi in competizione i lavoratori di queste due aree, con il conseguente smantellamento del benessere e dei diritti di quelli dei paesi industrializzati. Questo rende ancora più inquietante il fatto che si pensi a misure tanto inutili quanto dispensatrici di “elemosina”, che non servono certo a risolvere il problema alla radice, come potrebbe invece avvenire attraverso una seria politica di reddito minimo garantito, e sostegno nella ricollocazione nel mercato del lavoro.
Naturalmente il rischio è che si vada a demolire quel poco che rimane della coesione sociale, perchè molti nuovi poveri saranno esclusi da forme di sussidio minimo quale è la social card. Se la povertà è percepita come “caduta” che riguarda anche persone che vivono in condizioni accettabili o addirittura buone, essa viene associata anche al rischio di essere personalmente minacciati da tale eventualità. La povertà squalificante si traduce così in un’angoscia collettiva pressochè incontrollabile.
E’ altresì ovvio, che la probabilità dell’esclusione sociale è nettamente più elevata per le donne, che sono più penalizzate e in numero inferiore nel mercato del lavoro rispetto agli uomini. In una società che fonda le distinzioni di statuto sociale sulla partecipazione alla produzione della ricchezza collettiva, la perdita del lavoro è, una stigmate di inferiorità, di dipendenza dai servizi sociali e soprattutto l’inizio della parabola discendente verso la condizione di miseria. si pensi al numero degli sfratti per morosità da parte di chi perdendo il lavoro, o non guadagnando a sufficienza, si trova nell’impossibilità di pagare l’affitto.
Ricordiamo che se il rapporto con l’occupazione rimanda alla “logica protettiva” dello “stato sociale”, il rapporto con il lavoro rimanda alla logica “produttiva” della società industriale. Pertanto il lavoratore dipendente risulta precario nel momento in cui la sua occupazione è incerta e non gli permette di fare previsioni sul futuro professionale. Questo è infatti il caso dei lavoratori il cui contratto di lavoro è di breve durata, e di quelli che rischiano costantemente di essere licenziati. Queste condizioni caratterizzano una forte vulnerabilità economica e restrittiva dei diritti sociali, che sono fondati proprio sulla stabilità dell’impiego. In questi casi, il lavoratore occupa, perciò, un posizione inferiore nel sistema di stratificazione determinato dallo stato sociale.
La disoccupazione è del resto solo un aspetto della crisi del mercato del lavoro, assistiamo infatti alla proliferazione di occupazioni precarie, contratti a tempo parziale, lavoro a chiamata ecc…il tutto definibile come “sottocupazione”. Poichè è evidente che il rischio di perdere il lavoro, è considerevolmente alto soprattutto nelle imprese in corso di ristrutturazione, si può tranquillamente parlare di “destabilizzazione” di impieghi che erano considerati sicuri per definizione. Per non parlare delle nuove forme di just-in-time e le politiche di flessibilità della manodopera. Inoltre attraverso l’intensificazione dei ritmi di lavoro si è entrati in una fase permanente di selezione che mette in scacco una frangia di lavoratori più fragili, e che rischia di sancire la loro progressiva squalificazione sociale nell’ambito dell’impresa e sul mercato del lavoro in generale. Si è creato in questo modo una nuova relazione della società con la povertà (Robert Castel 1995).
Per quel che concerne l’Italia, essendo questo un paese organizzato ancora su una sorta di base tribale, la solidarietà famigliare, ha fino ad ora protetto molti dalla privazione e dalla povertà, ma ora questo sostegno familistico comincia a venir meno e i giovani non potranno più contare sul sostegno di genitori impoveriti progressivamente che a loro volta erano sostenuti dalla generazione precedente. Ci troviamo difronte ad uno sviluppo del capitalismo che ha prodotto un sottoproletariato, ovvero una schiera di lavoratori periodicamente senza lavoro e scarsamente retribuiti, oltre che perennemente poveri e impossibilitati a padroneggiare il proprio destino e quello dei loro figli.
Dovrebbe far riflettere a tal proposito il fatto che si parli di rafforzare ulteriormente la flessibilità in uscita (che già è consistente), il rischio di perdere il lavoro induce a vivere nella pautra di tale prospettive, ed è un fattore di disuguaglianza tra lavoratori garantiti e non.
E’ proprio dalla somma tra la “precarietà dell’occupazione” e “precarietà del lavoro” che si ha ” l’integrazione squalificante”. Poichè le persone che si vedono espulse dal mercato del lavoro e dalla sfera produttiva sono sempre di più, esse diventano “socialmente sospette” oltre che poco credibili. Sono quegli individui che non godono dei servizi più elementari da parte delle banche che non concedono loro i mutui, i propietari di abitazioni non danno in affitto gli appartamenti, anche quando sono alloggi sociali, perchè le garanzie richieste non sono solvibili dai disoccupati o dai precari. E la sommatoria di umiliazioni si fa più intensa.
Considerando che nella maggior parte delle società europee, la crescita del numero degli assistiti è una diretta conseguenza della disoccupazione, è ragionevole pensare che l’ottusità della politica nel non confrontarsi con le ricerche sociali, e continuare a proporre misure inadeguate quali la social card, sia quantomeno sospetta di voler mantenere questo stato di cose anzichè modificarlo strutturalmente.
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