Salviamo la lingua italiana nell’era della bruttezza
di Davide Cavaliere –
Corsi di laurea inglese, convegni di professori italiani tenuti in inglese, film proiettati in inglese, programmi radiofonici e televisivi con orribili nomi inglesi e una miriade di termini inglesi che infettano il linguaggio parlato e scritto: da management a low, da shopping a happy hour, da business e break fino a hotel e competitor. Esistono anche gli hair styler che rimpiazzano i troppo paesani «barbieri» e gli adolescenti vogliono diventare youtuber e influencer.
L’inglese economico e funzionalista ha infiltrato e corrotto la nostra lingua nazionale. Un estremo atto di salvaguardia dovrebbe muovere noi che parliamo la lingua di Dante, perché ogni parola persa, sostituita, sconfitta dal moderno che avanza è una campana da morto che rintocca nella notte del mondo. Ci si mobilita per la protezione dei panda e degli anemoni ma mai per lingua italiana, la cui scomparsa sarà una catastrofe per l’ecologia umana e la noosfera.
Noi siamo la lingua che parliamo, essa è specchio e prodotto miracoloso della nostra cultura e identità storica. Siamo un tutt’uno con le parole. In greco «Parola» si dice «Logos», che significa anche «Ragione» e noi umani siamo esseri razionali grazie all’inscalfito mistero del linguaggio. È per grazia delle parole che ci siamo fatti civili. Non a caso, il declino linguistico si accorda al declino politico.
Ogni rinascita nazionale si accompagna a una riscoperta della lingua, è stato così per noi italiani, è stato così per i tedeschi e per gli ebrei, che hanno fatto rivivere Israele e con essa l’ebraico biblico della Genesi, con le sue lettere ondeggianti come antiche fiamme. A ben vedere, la regressione dell’italiano e l’adesione per coazione all’inglese pratico si rivela perfettamente in sintonia col processo di demolizione degli Stati nazionali. Con la nostra adesione all’Unione Europea abbiamo rinunciato a esistere politicamente ed economicamente, rigettando l’italiano rinunciamo a esistere complessivamente come Nazione.
La lingua è un paesaggio sonoro, si armonizza coi palazzi, con le chiese, coi parchi e i monumenti (non a caso si parla di «panorama letterario», le parole strutturano il mondo esterno). Camminare per le contrade italiane ed essere sommersi da idiomi stranieri, anglismi o arabismi, genera un senso di estraniamento, lo stesso smarrimento che proveremmo nel vedere un centro storico profanato da una architettura contemporanea in vetro e acciaio rischiarata da luci colorate. Il nostro paesaggio linguistico è deturpato da tante piccole macchie nere, una miodesopsia del lessico.
Noi italiani, portatori colpevoli di una lingua non sintetica (quindi inadatta a un mondo rapido), siamo stregati dall’inglese. Siamo pronti a riverirlo, a farci suoi camerieri, a sacrificargli le nostre parole affinché ci renda più moderni. Sentiamo la necessità di imbastardire l’italiano per redimere la colpa nazionale di parlare una lingua latina europea.
Il bilinguismo è diventato un dogma, non conoscere una seconda lingua è oramai una disabilità. Si rimane esclusi dall’infernale «mondo del lavoro» (la qual cosa potrebbe essere positiva, se non fossimo costretti a lavorare dai tempi della Bibbia). Siffatto bilinguismo non arricchisce, non dilata il vocabolario, non espande l’intelletto poiché è un bilinguismo utilitaristico, un’anglofonia coatta e dozzinale.
La non-cultura egemone ci vuole «migranti», cioè straccioni sradicati pronti a farsi schiavizzare a Londra come a Sidney. Cosmopoliti senza terra né lingua madre. Simulacri di uomini che parleranno un inglese-esperanto pragmatico e non impegnativo. L’economia è la bocca smisurata che sforna e introduce senza sosta anglismi e americanismi. Il mercato mondiale ci pretende globali, la mondializzazione livella le specificità e cancella le fisionomie, anche linguistiche. L’umanità scivola verso una Babele prima della punizione divina, la Babele che non conosce straniero perché tutti parlano la medesima lingua. La nuova Babele del marketing e dei competitor.
L’Italia pullula di sabotatori della lingua. Bisogna tornare all’italiano, difendere l’italiano non solo dagli sbracati termini anglo-americani, ma persino dai gerghi giovanili. Giovani e giovanissimi impiegano un linguaggio proprio, povero, cacofonico, gonfio di sigle ed espressioni mutuate dai videogiochi e dalla rete. Un linguaggio che alle parole (ricordiamo che l’italiano ha quasi tre milioni di vocaboli) sostituisce grugniti, mugugni e abbreviazioni (dal «fra» abbreviazione di «fratello», siamo passati al «bro» abbreviazione dell’inglese «brother», siamo all’anglofonia mutilata). Senza una vera conoscenza della lingua nazionale, senza conoscerne i suoni e le armonie, non sarà possibile per loro sentirsi autenticamente italiani.
Questa regressione linguistica è divenuta anche letteraria, la Letteratura è stata pauperizzata e ridotta a «narrativa». Abbiamo scrittori italiani che producono romanzi imitando lo stile americano. La lingua asciutta e diretta dei romanzi americani è precipua di quel popolo, come può uno scrittore della patria di Gadda e Malaparte rinunciare alle raffinatezza lessicali della sua lingua elegante e articolata?
Semplificazione eccessiva, contaminazioni lessicali, riduzione all’oralità, rifiuto del bello, contiguità con l’informe… hanno deturpato la nostra visione del mondo, inaugurato l’era della bruttezza e ridotto il nostro paesaggio di parole in una zona venefica e corrosa.