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Il popolo puzza

agosto 29, 2019 • Articoli, Cultura e Società, z in evidenza

di Loredana Biffo –

“Il comitato centrale ha deciso che siccome il popolo non è d’accordo, bisogna cambiare il popolo”. Questo disse Bertold Brecht riferenderendosi alla Ddr negli anni cinquanta.

Scalfari invece sibila velenosamente e spocchiosamente dalle pagine della Pravda,  ops, Repubblica, che il popolo non è è in grado di pensare e quindi di votare.

Eccovi quindi servito il nuovo mostro, un partito di perdenti, falliti istituzionali e non, che si appresta a governare grazie al “non voto”. Grazie al diritto scippato al popolo bue e puzzolente. Bruxelles ringrazia, in nome di un’Europa sempre più oligarchica ed estranea. In barba al consenso, se questo non c’è noi instauriamo una bella dittaturina, alla faccia del dittatoraccio e fascista Salvini, che, a loro proprio non va giù che abbia tanto consenso, e allora invece di fare una seria analisi sulla decadenza politica che li caratterizza, preferiscono dire che il nemico ha la coda.

Poiché il contesto forgia l’azione che è quindi condizionata, possiamo sostenere che il condizionamento non include solo valori egoistici, ma essi fanno cadere la nostra attenzione sulla persistenza e sulla continuità dei comportamenti. Ne consegue che anche l’azione politica è condizionata dal contesto, che a sua volta è intessuto di consuetudini, valori e tradizioni, il mutamento politico è limitato, in quanto avviene all’interno di una tradizione, di una banda di oscillazione i cui confini sono determinati dalle tradizioni istituzionali, dove le motivazioni individuali finiscono col contare poco. Se il mutamento avviene, esso è originato dalla necessità di adattarsi a cambiamenti sociali avvenuti fuori dell’ambito politico.

Le istituzioni sono esse stesse espressioni di valori condivisi, necessari a tenere insieme le società che altrimenti si frantumerebbero, sono sedimentazioni che si formano nel tempo, per trasmissione, ma non può mancare l’adattamento. Sono il risultato di un lento apprendimento collettivo, esse costituiscono vincoli all’azione degli attori politici individuali (leader) e collettivi (partiti), questo finchè l’agire democratico non viene contaminato, finchè la democrazia non viene svuotata dall’interno attraverso meccanismi che rendono obsolete le “forme” democratiche. Chi controlla e pensa di controllare a lungo e in modo pervasivo l’esecutivo vorrà sempre più regole che trasmettano più rigidamente la propria volontà agli altri corpi dello stato e alla società civile.

Le varie fazioni concorrenti cercano di aumentare il proprio potere e di stabilizzarlo a scapito di altre, distorcendo i meccanismi della rappresentanza, cosa che porta ad uscire dal quadro democratico. Poiché la genesi e lo sviluppo dei partiti ha da tempo modificato profondamente lo svolgimento delle elezioni, abbiamo una duplice anomalia, da una parte, tra elettori ed eletti si è inserito un terzo soggetto: il partito, non si ha più quindi una interazione dialogica tra eletti ed elettori, tra nazione e parlamento, perchè il partito “terzo incomodo” si è introdotto tra loro modificando radicalmente la natura dei loro rapporti; dall’altra parte, le elezioni avvengono in una fase dicotomica, scelta dei candidati fatta dai partiti, e scelta tra i candidati fatta dagli elettori, riducendo drasticamente il potere degli elettori, che quando si recano alle urne per eleggere i propri governanti si trovano di fronte ad una possibilità di scelta limitata a sua volta da una scelta precedente, potendo scegliere solo tra candidati precedentemente selezionati dai partiti.

Sartori evidenziava a suo tempo, che così la rappresentanza ha perso in efficacia, e non può essere vista come un rapporto diretto tra elettori ed eletti, ciò significa riconoscere i limiti del potere dell’elettore, in un sistema dove la cooptazione del partito-apparato diventa elezione effettiva. Norberto Bobbio già negli anni Cinquanta, si domandava in quale stato fosse la democrazia se la classe politica non traesse il suo potere direttamente dal consenso popolare, e dette parere negativo, perchè in Italia e anche negli altri regimi democratici, il rapporto tra corpo elettorale e classe politica non è un rapporto diretto, e tra uno e l’altro ci stanno i partiti organizzati, che combinano il metodo elettivo con quello della cooptazione, dicendo quindi soltanto una mezza verità.

La selezione non viene fatta dal corpo del partito nel suo complesso, ma nella maggior parte dei casi dai dirigenti nazionali e locali, le cui decisioni gli iscritti si limitano a ratificare. Questo significa che milioni di elettori, votando, fanno una “scelta” tra i candidati “imposti” loro da un esiguo numero di “capi partito” locali o nazionali, il più delle volte dalle poche decine di persone che contano veramente nella classe politica del paese, per dirla con Bryce (che descrisse nella seconda metà dell’Ottocento gli Stati Uniti d’America nel loro metodo di elezione delle cariche): “Gli stessi uomini sono sempre rieletti, perchè tengono nelle loro mani le fila del movimento, perchè sono più al corrente e si occupano più degli altri degli affari del partito”.

Nella celebre “Legge ferrea delle oligarchie” Robert Michels, sostiene che “organizzazione” significa oligarchia, che è di per se stessa la causa del predominio degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti. Infatti Michels riprende la altrettanto celebre critica di Rosseau al sistema rappresentativo, secondo la quale appena si è dato dei rappresentanti, il popolo “non è più libero”. Ma anche se molti punti della sua interpretazione paiono confermare che il bersaglio polemico di Michels sia semplicemete la democrazia rappresentativa applicata al partito, la cosa non è così vera, piuttosto la si usa in modo giustificazionista per dare a intendere che il problema dell’oligarchia è intrinseco alla natura del potere ed è perciò ineliminabile.

Apparentemente Michels sembra non credere non solo alla democrazia indiretta, ma nemmeno a quella diretta, perchè nemmeno questa riuscirebbe a fare a meno dei “capi”, come una assemblea popolare non può fare a meno di una autorità che stabilisca l’ordine del giorno, e stando alle leggi della psicologia di massa, una grande assemblea è esposta all’influenza del linguaggio demagogico e preda di abili e spregiudicati oratori. Perfino i referendum sono manipolabili dai capi partito, a mezzo di una formulazione delle domande e una interpretazione interessata dei risultati.

La democrazia rappresentativa vista come tradimento della democrazia vera, quella diretta, è quindi impossibile. Questa critica alla democrazia rappresentativa condotta da Michels può apparire incomprensibile a chi vede oggi la democrazia rappresentativa come l’unica possibile, in realtà essa diventa comprensibile e condivisibile se la critica viene fatta in base alla accezione di “oligarchia chiusa”, dove il termine oligarchia sta ad indicare un gruppo dirigente chiuso, che si perpetua al potere con mezzi leciti, ma soprattutto illeciti e che si rinnova soltanto attraverso la pratica della “cooptazione”.

Possiamo ragionevolmente sostenere che vi è in tale esercizio del potere una degenerazione della democrazia, che si trasforma in “forma di governo autocratica”, dove i leaders si isolano, formando gli uni con gli altri dei “patti difensivi”, erigendo un muro che solo quelli a loro graditi possono scalare; ovviamente chi è giunto ai vertici del partito cercherà in tutti i modi di reiterare la propria posizione di dominio, circondandosi di nuove difese, sottraendosi al controllo di massa e soprattutto alla giurisdizione. Il risultato sarà la formazione di una leadership stabile e inamovibile, chiusa nell’isolamento di una casta che si rigenera con la cooptazione.

Sono molti i metodi per conservare il potere anche quando c’è malcontento anche nella base del partito, quando è crescente l’insoddisfazione, si limita la libertà di espressione all’interno del partito, screditando gli oppositori, etichettandoli come demagoghi, incompetenti, irresponsabili, che mettono a rischio l’unità del partito. Si possono manipolare le elezioni al momento del rinnovo degli organismi dirigenti escludendo dalla competizione gli sfidanti più pericolosi; candidando alle elezioni per il parlamento soltanto coloro che sono ritenuti totalmente fedeli. Se poi, gli sforzi non fossero stati sufficienti a impedire l’opposizione interna, non la si affronta direttamente nella battaglia congressuale, ma la si indebolisce preventivamente attraverso la cooptazione di una parte dei suoi esponenti, di conseguenza non si esaurisce mai la lotta per il potere, nemmeno con l’avvento di un nuovo gruppo dirigente, piuttosto si assimila qualche soggetto nuovo nel vecchio gruppo dirigente.

La degenerazione in cui si trova il sistema politico attuale, è che siamo oltre la discussione sulla democrazia all’interno dei partiti, perchè i partiti perdenti hanno la pretesa di conservare il potere frantumando tutte le regole del gioco democratico delegittimando anche la protesta,  che altro è la protesta se non lotta politica all’interno della società e del partito, la quale può svilupparsi liberamente soltanto in un partito governato democraticamente?
Hirschman a ragione, considera la “protesta” voice, il rimedio principe alla crisi dei partiti, oltre che degli stati, le proteste che i membri insoddisfatti di un partito muovono contro i propri dirigenti possono, anzi devono, spingere questi ultimi ad attuare i cambiamenti necessari per rendere il partito più competitivo ed arrestarne l’ altrimenti inevitabile declino.

Sono queste buone ragioni per sostenere che la democrazia all’interno dei partiti sia tanto necessaria per la democraticità del sistema complessivo, quanto indispensabile per la sopravvivenza e l’identità dei partiti medesimi, nonostante ciò, tutto sembra confermare che nelle nostre democrazie i partiti a dispetto delle trasformazioni sociali subite dai tempi di Michels, hanno continuato e continuano tutt’ora ad essere gestiti in modo oligarchico.

In questa manovra oligarchica, perfino il partito (che si definiva movimento) dei 5stelle, si è liquefatto nelle dinamiche di quel potere che tanto denigrava, e il partito democratico ha riconfermato la sua originale natura, quella di partito a vocazione maggioritaria, una definizione vuota che è stata sbandierata fin dagli albori della sua formazione. Oggi lo si può definire tranquillamente un partito a vocazione maggioritaria puramente oligarchica e completamente avulso alla realtà, tantomeno rappresentativo del vituperato popolo “subalterno e puzzolente”.

 

 

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