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Cosa significa togliersi il velo in Iran

luglio 31, 2019 • Agorà, Articoli, z in evidenza

di Loredana Biffo –

La possibilità che nel mondo islamico nasca la democrazia è legata unicamente all’acquisizione dei diritti e dell’autodeterminazione delle donne. Il caso iraniano è in questo senso esemplare, perché vede a capo della Resistenza una donna, Maryam Rajavi.

Da tempo, soprattutto le giovani donne, non tollerano più l’imposizione del velo, che è il simbolo del potere maschile misogino nel mondo islamico. Vogliono dimostrare con le loro proteste, con il gesto di togliersi il drappo della discriminazione  di voler uscire dallo stato di minorità in cui l’integralismo degli ayatollah le tiene segregate. Ma questo semplice gesto di togliere il velo e farlo sventolare tenendolo in mano, in Iran costa 10 anni di carcere, con tutto quello che questo comporta.

Le conseguenze per una donna che finisce in un carcere sono gravissime, in primis la violenza sessuale – tradizionale forma di dominio dell’uomo sulla donna  – in questo caso viene perpetuata con una ferocia e determinazione inaudite. Seguono processi farsa, dove, se riescono a far passare che una donna è simpatizzante della Resistenza, viene condannata a morte, anche solo per sospetto. La malcapitata, secondo le anacronistiche leggi della sharia, viene fatta sposare con uno dei carcerieri e poi stuprata per far si che non abbia accesso al paradiso. Il giorno successivo verrà giustiziata e un certificato di matrimonio viene mandato alla famiglia insieme ad una richiesta di denaro per la “spesa delle pallottole”.

Questo è quello che dovrebbero sapere le femministe occidentali, l’informazione è da anni sottomessa al Regime che tiene a libro paga diversi intellettuali e influenza  in tal modo l’opinione pubblica diffondendo un’immagine irrealistica dell’Iran. Boicottano coloro che hanno l’ardire di contrastare questi 40 anni di orrori, ma le donne iraniane non indietreggiano, il loro percorso verso la loro libertà – e quella di tutto il popolo – è inarrestabile.

Khomeini  sostenendo che gli uomini e le donne erano uguali, e che queste avevano la facoltà di partecipare alla vita pubblica purchè fossero velate, riuscì a controllare e sedare le tensioni fra laiche e religiose, ma fu una grande illusione che durò poco, infatti ben presto cominciò la repressione nei loro confronti.

A partire dall’ 8 marzo 1979 (ad appena un mese dalla rivoluzione) le laiche riunite in corteo a contestare l’islamizzazione della società, vennero bastonate e frustate dalla milizia di Khomeini, che rivelò il suo vero volto diabolico e ferocemente misogino; questo fu determinante nell’allontanare in modo definitivo le moderniste dal regime e dare avvio ad una fase di vera e propria rivolta femminile senza precedenti nel mondo islamico.

Nel frattempo i chierici ordinavano a tutte di vivere nell’ombra del focolaio domestico, adducendo che “la donna era garante della tradizione”, dell’ordine famigliare e sociale maschile fondato sul mito della purezza femminile e quindi chiesero allo Stato Islamico il ripristino dell’onore comunitario e famigliare.

Le donne filo occidentali erano considerate nemiche della morale islamica, si diede quindi avvio ai “comitati di purificazione”, licenziando le donne che occupavano posti di dirigenza nel lavoro, la scelta era tra la segregazione o il chador (velo integrale). Il velo era il fattore determinante tra il lecito e l’illecito. Lo Stato islamico, imponendo la copertura del corpo femminile, si faceva così garante dell’onore maschile e tutore del pudore femminile; si diede il via all’obbligatorietà del velo dal 1981 e paradossalmente indossarlo assumeva (in particolare nelle zone rurali) un lasciapassare per uscire autonomamente di casa.

Una partecipazione alla vita pubblica che permetteva di accedere all’autonomia rispetto all’ordine patriarcale e occupare lo spazio pubblico, cosa ovviamente non gradita ai maschi di famiglia. In realtà è avvenuto un processo di idealizzazione che permane tutt’ora riguardo a quelli che secondo i precetti islamici riguardano il “comportamento delle donne”, ovvero la segregazione di genere è uno “stile di vita” voluto e dettato dagli insegnamenti del Profeta Maohammad.

Divennero le vittime sacrificali del potere maschile, arrestate e giudicate dal tribunale islamico secondo i precetti della sharia e sotto tutela della morale religiosa applicata attraverso un tutore. Fu così che il chador diventò la prigione di stoffa nera che oscurava la donna nella sua interezza fisica, morale e psicologica.

Khomeini acquisì una forza organizzativa senza precedenti e si insediò nel corpo della modernità occidentale oltre che nel medio oriente, a distanza di oltre 35 anni non ha ancora allentato il suo potere distruttivo sulla società iraniana. La sua dottrina si basa sul concetto di velayat-e-faqih, o più precisamente identificazione tra politica e religione, deve la sua nascita al testo fondamentale scritto da Khomeini “Lo Stato Islamico”, nel quale dichiarava: “la tutela, è come quella di un tutore su un minore; non vi è differenza tra il tutore di una nazione e il tutore di un minore per quel che concerne responsabilità e doveri; altrettanto vale per la tutela dell’uomo sulla donna”.

Fin dall’11 marzo 1979 vi furono le prime contestazioni da parte delle donne che sfidavano l’ayatollah, e l’8 marzo successivo all’ascesa di Khomeini presero a sfilare in massa per le strade di Teheran. I gruppi politici diedero inizio ad una lotta  non violenta e i Mujaheddin del Popolo dichiararono di non accettare il codice di abbigliamento che imponeva il chador e lo smantellamento dei diritti giuridici, legali e sociali. Fu l’inizio di una lotta che non è mai cessata nel corso degli anni.

L’ ideologia fu parte integrante della Rivoluzione islamica e stabiliva che era l’appartenenza di genere la linea di demarcazione nelle relazioni sociali.

Per approfondire: Granelli di Sabbia, di Loredana Biffo, ed. CELID 

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