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30 fa iniziava il “Maxi processo” a Cosa Nostra

febbraio 10, 2016 • Articoli, L'eco della memoria, z in evidenza

 

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di Loredana Biffo

“Finalmente – dice oggi il presidente del Senato – il mondo vedeva la mafia dietro le sbarre e avrebbe visto condannati centinaia di mafiosi. L’impegno dello Stato, il sacrificio di tanti uomini, e il lavoro del pool di Falcone e Borsellino trovavano un riconoscimento giudiziario e una consacrazione alla storia”. Grasso fu impegnato a scrivere le motivazioni della storica sentenza: un sforzo enorme che richiese circa otto mesi, quasi settemila pagine che cristallizzarono quella che per Alfonso Giordano fu “una svolta storica nella lotta contro la mafia”.

Ma ripercorriamo brevemente la storia. Fu con l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, che furono l’apice della ripresa di “omicidi eccellenti”, la situazione in Sicilia era ulteriormente peggiorata; questo diede l’avvio alla costituzione di una nuova commissione di indagine parlamentare, che veniva estesa a “tutte le mafie”, camorra, ‘ndrangheta e Cosa Nostra; era il 1982.

Il ripercorrere la storia delle mafie si rende oggi oltremodo necessario al fine di far luce sulla situazione attuale delle stesse in Italia. In un momento così difficile della storia del nostro Paese, in uno scacchiere politico così pervaso dalla corruzione, sia a livello politico locale che nazionale, che vede collusioni e associazione di stampo mafioso, con clientele parassitarie e truffaldine e nepotiste, come già sosteneva Peppino Impastato, giornalista siciliano ucciso nella notte tra l’ 8 e il 9 maggio 1978 dai sicari di Tano Badalamenti.

La suddetta commissione di inchiesta sul fenomeno mafioso in Sicilia, metteva il focus sul periodo delle grandi migrazioni interne (inizio anni cinquanta fino agli anni settanta), in cui avveniva l’abbandono delle campagne ed una conseguente urbanizzazione forzata in tutta Italia.
Fu proprio in quel contesto che la mafia siciliana centralizzò i suoi interessi sul piano industriale e commerciale, in particolare nell’edilizia e degli appalti pubblici, attraverso favori illeciti, uso illegale nella concessione di licenze e appalti.

Si agevolò così l’ingresso della mafia in numerose attività economiche, attraverso l’appoggio di notabili o gruppi di politici locali, tramiti indispensabili per esercitare il controllo di varie attività.
Del resto nemmeno sono mancati casi identificati di esponenti della mafia inseriti negli uffici della pubblica amministrazione nominati ed eletti a cariche pubbliche sia a medio livello che ai vertici.

Cosa Nostra andava accrescendo il suo potere attraverso forme di “modernizzazione”, mantenendo tuttavia il suo originale assetto verticistico piramidale: la “famiglia” alla base, con forte connotazione territoriale, costituita e gestita dagli “uomini d’onore”, o “soldati”, i “capidecima” e il “capofamiglia” che ha potere su tutti, con la collaborazione di consiglieri.
Al vertice c’era la “cupola”, con i “capimandamento” che rappresentavano più famiglie e un “capo commissione”, il tutto ramificato nell’intera Sicilia, e non solo nella zona occidentale.

Fu proprio Carlo Alberto Dalla Chiesa a evidenziare il ruolo importante che la mafia aveva acquisito a Catania. Città dove vi erano collusioni fortissime con esponenti di pubblici poteri. E dove si cominciavano ad uccidere i giornalisti, per esempio Giuseppe Fiera; inoltre iniziarono ad emergere stretti collegamenti con la criminalità torinese e milanese. Importanti anche i traffici economici attraverso il contrabbando delle sigarette, che si infiltrerà anche nel mercato di Napoli, prevaricando i clan dei marsigliesi e la mafia calabrese; fino a fare il salto di qualità (attraverso l’internazionalizzazione dei meccanismi finanziari), con il traffico della droga.

Cosa Nostra diventò così un epicentro di accumulazione di capitale a partire dagli anni settanta, proprio gli anni in cui Peppino Impastato da Radio Out a Cinisi denunciava i fatti.
Determinante a questo sviluppo della mafia, fu la crisi economica e istituzionale che servì a fare da collante al processo di identificazione dei mafiosi nei rapporti sociali e di mercato.
Sempre negli anni settanta, Palermo diventò la base per lo smistamento e la raffinazione dell’eroina; se ne producevano annualmente 3-4 tonnellate, il che faceva incassare alle famiglie mafiose una quantità incalcolabile di denaro. Si pensi che il rendimento di capitale investito si aggirava intorno al 340% per ogni operazione, che, se ripetuta ne corso dell’anno, significava guadagni annui di migliaia di miliardi.

Questo comportava un aumento della necessità per i suoi membri, di reinvestire i profitti in attività lecite, imponendo le proprie esigenze e convenienze al mercato, alla pubblica amministrazione che divenne il canale prediletto, e ovviamente i componenti degli organi politici.
E’ in questa fase che Palermo ha creato un collegamento tra la nuova mafia imprenditoriale e l’amministrazione, con il coinvolgimento di settori di spicco dell’economia e dell’alta finanza.

Significativi furono a tal proposito i provvedimenti giudiziari che vennero adottati a Palermo, Catania, Milano e Torino, basati su rivelazioni di capifamiglia di alto livello.
La lobby politico-mafiosa, perde così l’aspetto esclusivamente locale e tradizionalistico per andare ad inserirsi e molto bene integrarsi, in un contesto nazionale legato al mondo affaristico-finanziario dove i confini tendono ad assottigliarsi fino a scomparire.
Significativa è a tal proposito la vicenda Sindona, la cui figura è legata al carattere strutturale della mafia, ma va sempre più verso il generale. E lo si evince dal fatto che la sua vicenda era di collusione a livello istituzionale; per non parlare dei legami accertati tra alte gerarchie della mafia e la P2.

Da precisare che la connotazione “eversiva” che caratterizza Cosa Nostra da quel momento in avanti (fino al periodo delle stragi degli anni novanta), è coincidente con l’arrivo a Palermo di Sindona e i suoi comprovati legami con la loggia P2, nonché di Calvi, Carboni, Pazienza e altri loschi personaggi vicini a Licio Gelli, che interagiscono con l’ambiente mafioso.

E’ inoltre da sottolineare che Sindona fu un finanziere d’avventura, che si mosse tra politica, Vaticano e Mafia; intratteneva rapporti con uomini politici anche oltre oceano, e nel 1973 Andreotti lo definì “il salvatore della lira”, uomo di fiducia del Vaticano e dello Ior, premiato in Usa come “uomo dell’anno”, ma aveva rapporti “stretti” anche con la mafia.

Nonostante la storia della criminalità mafiosa in Italia sia connotata da tragedie, la conoscenza sul tema è ancora troppo approssimativa, e non permette ai più di cogliere l’importanza delle “mutazioni” mafiose. La situazione attuale di calma apparente non deve essere assunte a indice sintomatico che il fenomeno sia stato represso. E’ un’opinione che va risolutamente contrastata sia per la sua infondatezza che per la sua intrinseca immoralità.

Perché le mafie hanno compiuto in questi ultimi anni un impressionante salto di qualità, hanno raggiunto sempre più alti livelli di criminalità a potenza finanziaria attraverso l’inquinamento di settori della politica.
Hanno ben compreso quali sono le vie del denaro, sono diventate il centro di questo processo. Sono diventate un territorio del potere finanziario, la nuova economia; in un carosello in cui i capitali legali e illegali si mischiano fra loro fino a diventare indistinguibili.

L’arsenico della mafia, viene somministrato tutti i giorni attraverso l’indebolimento e il discredito delle istituzioni, dei magistrati, e dei giornalisti con la schiena dritta, che come Impastato rifiutano l’equilibrio della paura, che è il più stabile, la corruzione e i tentativi subdoli (come la revisione del 41 bis) di allentare la sorveglianza sul sistema criminale; e come sappiamo, l’arsenico è un veleno che uccide poco alla volta ma inesorabilmente.
A Palermo Cosa nostra era in gabbia, dentro l'”astronave” dell’aula bunker dell’Ucciardone costata 40 miliardi di lire e costruita in tempi record.

Era un lunedi’ di 30 anni fa quel 10 febbraio 1986, in una Palermo violentata dal terrorismo mafioso. Una data che segna l’inizio del Maxiprocesso voluto piu’ di tutti da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, autori della poderosa ordinanza, scritta dai due giudici istruttori nell’esilio forzato dell’Asinara, a causa del concreto rischio di un attentato.

Ventidue mesi di dibattimento, 349 udienze, 475 imputati, 8.000 pagine di verbale, 1.314 interrogatori, 635 arringhe difensive, 900 testimoni, 200 avvocati penalisti, 500 giornalisti arrivati da tutto il mondo. E alla fine, dopo 36 giorni di camera di consiglio, 19 ergastoli, 2.665 anni di carcere per i principali boss di Cosa nostra, 114 assoluzioni.

Tra i protagonisti lo storico pentito Tommaso Buscetta la cui deposizione ridusse al silenzio la feroce orda mafiosa; e i condannati eccellenti quali Pippo Calo’, Michele Greco, Luciano Liggio, nonche’ Bernardo Provenzano e Toto’ Riina condannati all’ergastolo benche’ latitanti.

In scena anche duelli durissimi, come quello tra Buscetta e Calò. La sentenza fu pronunciata il 16 dicembre 1987. “Abbiamo vinto”, disse Falcone al suo fedelissimo Giovanni Paparcuri, sopravvissuto al tritolo che in via Pipitone Federico il 29 luglio 1983 uccise il giudice Rocco Chinnici di cui era autista. A presiedere la corte d’assise l’allora 57enne Alfonso Giordano, tra i pochissimi ad accettare in mezzo a tanti colleghi che si tirarono indietro. Giudice a latere un 41enne Pietro Grasso.

Come diceva Leonardo Sciascia:            sciascia

“Questo è un paese dove non hanno più corso le idee, i principi – ancora proclamati e conclamati – vengono quotidianamente irrisi, le ideologie si riducono in politica a pure denominazioni nel gioco delle parti che il potere si assegna, dove soltanto il potere per il potere conta. E si può anche pensare all’Italia, si può anche pensare alla Sicilia; ma nel senso di Guttuso: quando dice: “anche se dipingo una mela, c’è la Sicilia”. La luce, il colore. E il verme che da dentro se la mangia? Ecco, il verme, in questa parodia è tutto immaginario. Possono essere siciliani e italiani la luce, il colore (ma ce n’è poi), gli accidenti, i dettagli; ma poi la sostanza (se c’è), vuole essere quella di un apologo sul potere nel mondo, sul potere che sempre di più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa”.

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