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Oriana Fallaci, il coraggio contro l’ipocrisia

settembre 15, 2015 • Articoli, L'eco della memoria, z in evidenza

 

 

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di Mara Stecchini

Il 15 settembre 2006, si spegneva a Firenze Oriana Fallaci, dopo aver ingaggiato un’aspra battaglia – l’ultima e senza esclusione di colpi – contro quel male innominabile, l’Alieno, come lei stessa soleva definire con lucida ironia la malattia che da tempo l’aveva aggredita. L’elemento spurio della sua coscienza, con cui, fatalmente, aveva dovuto misurarsi per tutta una vita, divenuto nucleo pulsante della sua opera di giornalista e di scrittrice.

Aveva deciso di tornare a morire a Firenze, dove era nata, perché voleva andarsene “nella Torre dei Mannelli, guardando l’Arno da Ponte Vecchio”, tributando alla sua città l’ultima battuta di un copione irripetibile, intriso di uno straripante sentimento di amore-odio e tipico di una certa “fiorentinità” appassionatamente sofferta e nel contempo irriverente.

“Mi ritengo una fiorentina pura – sono le sue parole – fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa”.

Non è un caso che nel tempo altri suoi celebri concittadini con la propensione all’esilio, a partire dal Più Illustre Fiorentino sommo Poeta, non abbiano saputo ricomporre, come lei, la frattura tra la parte “guelfa” e quella “ghibellina” della loro interiorità, ed abbiano continuato a sfidare ogni potere occulto e precostituito con tutte la loro forza e tutta la loro debolezza, sbandierandovi contro tutto il loro cinismo impastato di passione. Maledetti toscani per antonomasia! Tra loro anche quel Curzio Malaparte, personaggio complesso ed intelligente, incoerente, stravagante, mitomane, seduttore ed esibizionista, suo maestro e, come lei, con la vocazione a proporre lo scandalo come elemento comunicativo, a tentare di esorcizzare, usando la penna e la macchina da scrivere come baluardo, lo spettro di oppressioni ed ingiustizie di varie specie. A tutti i costi. Anche a costo di commetterne, di imparzialità, essendo per vocazione tutto ed il contrario di tutto.

Alcuni di loro ripudiati dalla loro stessa madre culturale e spirituale, ovvero dalla città che li aveva partoriti anche psicologicamente, confinandoli in un esilio alla fine autoimpostosi.

Oriana Fallaci oggi riposa in una tomba al Cimitero degli Allori, a Firenze, insieme a tre rose gialle, che volle fossero sepolte con lei, una copia del “Corriere della Sera” e un Fiorino d’Oro, onorificenza che la sua città-madre con grande polemica non volle conferirle, e che le fu donato dal maestro Franco Zeffirelli, altro grande artista ed intellettuale fiorentino forse in perenne disputa con le sue origini.

Ammirevole è stato il coraggio di questa donna orgogliosa e indomita, che fin dall’età di quattordici anni aveva fatto parte della Resistenza aiutando il padre antifascista nella sua città preludio di bellezza, assediata dalle truppe tedesche ed oltraggiata dalla guerra; che poi nella sua vita di donna adulta e in qualità di inviata speciale nei vari teatri mondiali di conflitto aveva cercato di capire e documentare quella follia permanente chiamata guerra, e comprendere e spiegare la natura dell’incomprensibile dissidio tra gli uomini. Aveva voluto sfidare e misurarsi con i centri stessi del potere, affrontando nel corso di appassionate interviste rimaste memorabili i potenti della Terra, coloro che avevano facoltà di distruggere o difendere un popolo (ricordiamo la famosa intervista all’ayatollah Khomeini, durante la quale si tolse il “chador”, simbolo di sottomissione coniugata al femminile, che le avevano imposto di indossare).

“Ho sempre amato la vita. Chi ama la vita non riesce mai ad adeguarsi, subire, farsi comandare”. “Chi ama la vita è sempre con il fucile alla finestra per difenderla”. Queste le sue frasi, novella Penelope che non si rassegna al ruolo domestico di chi tesse la tela aspettando il ritorno di Ulisse, ma, Ulisse lei stessa, viaggia alla ricerca della sua identità e della sua libertà.

Una nota stridente e dolorosissima si insinuò fatalmente, purtroppo, nel contesto del suo carattere integro, battagliero ed audace, facendone emergere tutta la fragilità: il pungolo tormentoso ed incancellabile per due perdite gravissime, quella del compagno della sua vita, l’eroe e leader della Resistenza greca al regime dei Colonnelli Alessandro Panagulis, morto in un misterioso incidente le cui cause non sono state mai del tutto chiarite, e del figlio che aspettava da lui (che diventarono i protagonisti dei suoi libri più famosi: “Un Uomo” e “Lettera ad un bambino mai nato”).

Sogno ed ideale di appassionata libertà infranto.

Suscitarono perplessità le posizioni sofferte, contrastanti e provocatorie assunte della Fallaci negli ultimi anni della sua vita, le sue polemiche riguardanti temi scottanti quali la politica, l’aborto, l’eutanasia, i rapporti con il mondo islamico, soprattutto quando, dall’esilio dorato newyorkese dove si era rifugiata e da lei considerato il “refugium peccatorum” degli esiliati alla ricerca di un ideale di democrazia superiore (forse inesistente, se non si è in pace con se stessi), scrisse “La rabbia e l’orgoglio”, pamphlet contro le dittature, il fanatismo religioso, la debolezza dei governi, concepito dopo l’attacco all’America dell’ undici settembre 2001.

Qui Oriana Fallaci critica l’ideologia stessa del comunismo, affermando che esso “proibisce alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e mette Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. Il comunismo è un regime monarchico di vecchio stampo, ed in quanto tale taglia le palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo diceva mio padre. Invece di riscattare la plebe il comunismo trasforma tutti in plebe. Rende tutti morti di fame”. Successivamente proseguì con l’attacco alla magistratura, individuando i suoi esponenti come “servi della sinistra”, come “un feudo personale di Karl Marx, esponenti di uno strapotere che ha raggiunto vette inaccettabili. Impuniti ed impunibili manipolatori della legge con interpretazioni di parte dettate dalla loro militanza politica e dalle loro antipatie personali”.

La grande combattente, invece, era ferita. Colei che aveva prospettato una nuova rotta al mondo femminile, e dimostrato che le donne potevano veramente fare qualsiasi lavoro, aveva perso la sua forza consumando le energie nell’esilio che si era imposta,e per non essere riuscita a vincere la sua battaglia. Che era quella prima di tutto di una donna, una figura controversa e complessa, che non è possibile ridurre ad un’interpretazione a senso unico.

Dovremmo essere rispettosi di questo, per affermare che tante sue battaglie non sono state combattute invano, e comprendere il suo dramma prima di tutto umano e personale, senza strumentalizzarlo per difendere l’indifendibile.

Sperando che questa controversa eroina faccia finalmente pace anche con la “sua” Firenze e la sua matrice più intima.

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