MENU

Oskar Lafontaine, un’Europa migliore è possibile

aprile 5, 2015 • Agorà, Articoli, z in evidenza

oskar

 

Redazione

“La sinistra ha senso di esistere solo se diventa anti-sistemica, se si batte per un sistema in cui i frutti del lavoro vanno a chi se li è guadagnati. Dove esistono miliardari, non può esistere la democrazia”.

Oskar Lafontaine è uno dei politici tedeschi più importanti del dopoguerra. Dopo aver abbracciato il socialismo una ventina di anni fa, è diventato una figura particolarmente controversa. L’ex sostenitore dell’integrazione europea e simpatizzante dei “movimenti post-materialisti” degli anni ottanta è oggi un acceso critico dell’Europa e strenuo difensore dello stato sociale.

Nel corso della sua lunga carriera, Lafontaine è stato ministro-presidente del minuscolo Länder del Saarland, sul confine franco-tedesco; sindaco della capitale Saarbrücken; ministro delle finanze tedesco; presidente del Partito Socialdemocratico (Spd); e infine copresidente della Linke, il partito tedesco della sinistra radicale.

Alla fine degli anni novanta, il tabloid inglese The Sun lo definì “l’uomo più pericolo d’Europa” per la sua campagna a favore della regolamentazione delle transazioni finanziarie a livello europeo. In seguito ad una campagna mediatica ben orchestrata e dopo essere stato marginalizzato dalla fazione neoliberista dell’Spd, guidata dal cancelliere Gerhard Schröder, Lafontaine si dimise dal suo ruolo di ministro nel governo rosso-verde. La Borsa tedesca reagì schizzando in su del 5 per cento.

Nel 2005, dopo quarant’anni di militanza, Lafontaine ha abbandonato l’Spd ed è entrato nella Linke. Sotto la sua leadership, il partito si è notevolmente consolidato nelle urne. Ma Lafontaine è stato oggetto di nuove critiche, stavolta da parte dell’ala filogovernativa del partito, che vede in Lafontaine un ostacolo ad una possibile alleanza con i socialdemocratici e i Verdi. Dopo essersi ammalato di tumore, Lafontaine ha abbandonato la guida del partito del 2010, ma continua a guidare l’organizzazione nel Saarland.

In seguito allo scoppio della crisi dell’eurozona, Lafontaine è diventato un acceso critico dell’euro, sostenendo l’abolizione della moneta unica e il ritorno ad un sistema di tassi di cambio coordinati. In questa intervista discute con l’attivista tedesco Leandros Fischer del futuro dell’Europa, di Syriza, della posizione della Linke e dei partiti “anti-sistemici”.

 

Qualche anno fa hai fatto scandalo sostenendo lo smantellamento dell’euro ed il ritorno ad un sistema di tassi di cambio coordinati. Sei ancora della stessa idea e, se sì, perché?

L’attuale sistema dell’euro non funziona. Non si tratta solo di una moneta, ma di un sistema determinato dalle regole contenute nel Trattato di Maastricht. È per questo che sono favorevole ad introdurre una maggiore flessibilità nel funzionamento nell’unione monetaria.

Più precisamente, questo vorrebbe dire introdurre una sorta di “euro greco”, il cui tasso di cambio sarebbe deciso in maniera collettiva da vari attori, tra cui la Banca centrale europea, al fine di prevenire una svalutazione eccessiva della nuova moneta. In questo modo, la Grecia non uscirebbe dall’Eurosistema; ne continuerebbe a far parte, ma a condizioni più favorevoli.

La risposta della maggioranza del tuo partito è stata immediata: la Linke è a favore della moneta unica, il problema sono le politiche della cancelliera Angela Merkel. Le attuali istituzioni europee vanno riformate o superate?

Nel partito crediamo tutti in un’Europa più sociale e democratica. Ma quando ci sono paesi, come la Grecia, che vengono soffocati dagli attuali vincoli finanziari imposti dall’eurozona, allora quei vincoli vanno smantellati. Il problema è che molti a sinistra non capiscono come funzionano le unioni monetarie. Nel periodo antecedente all’introduzione dell’euro, nessuna sembrava rendersi conto della necessità di una politica salariale comune, e del fatto che in assegna di una politica salariale coordinata il sistema era inevitabilmente destinato ad incepparsi.

Ma è veramente possibile un’uscita controllata nel contesto della profonda crisi strutturale che sta attraversando il capitalismo? Le proposte di questo tipo sono semplicemente uno strumento di stampo keynesiano per rilanciare la crescita o sono un mezzo per organizzare la società su basi radicalmente diverse?

Entrambe le cose. L’introduzione di una moneta parallela offrirebbe ovviamente al paese in questione una boccata di ossigeno e un notevole spazio di manovra economico in più. Ora ci troviamo in una situazione disastrosa, in cui il governo greco è sostanzialmente privo di qualunque potere ed è costretto a farsi dettare le condizioni da forze esterne. Ovviamente la flessibilità offerta da questo “euro greco” non sarebbe di per sé una garanzia di immediata reindustrializzazione, ma almeno l’economia greca o di qualunque altro paese potrebbe ricominciare a respirare.

La storia insegna che un sistema monetario che impedisce ai singoli paesi di svalutare non può funzionare senza coordinamento salariale. In Grecia, i salari reali sono cresciuti più rapidamente della produttività, ma allo stesso tempo la Germania ha praticato dumping salariale. In queste condizioni, una rottura del sistema era inevitabile.

Fin dove pensi che arriverà il governo tedesco nella sua “guerra” contro Syriza? La loro intenzione è “liberarsi dei greci” e cacciarli dall’eurozona, o tenerli all’interno della “gabbia d’acciaio” e costringerli a implementare le misure di austerità?

Non è del tutto chiaro. Da un lato sappiamo che il nostro ministro dell finanze, Wolfgang Schäuble, era a favore di un’uscita della Grecia dall’euro già nel 2012. Dall’altro, vari ufficiali del governo hanno dichiarato che il “Grexit” avrebbe conseguenze imprevedibili. In un certo senso, penso che il governo sia diviso su questo punto. Personalmente, ritengo che né la Merkel né Schäuble capiscano bene come funzionano le unioni monetarie, perché entrambi rimangono fedeli al dogma neoliberista secondo cui ridurre i salari, deregolamentare il lavoro e fare austerità aiuti a promuovere la crescita.

La Linke, con poche eccezioni, ha votato a favore dell’accordo raggiunto qualche settimana fa dall’Eurogruppo con il nuovo governo greco. La paura tra gli esponenti del partito era che, non offrendo il proprio sostengo all’accordo, sarebbero stati accusati di non essere solidali con il governo di Alexis Tsipras. Come giudichi questa posizione?

La paura di non apparire solidali con la Grecia è una cosa che capisco. Ma è una paura che ha più a che fare che una percezione distorta della realtà che con i fatti. La verità è che in base a quella proposta il governo tedesco ha offerto nuovi prestiti alla Grecia a condizioni molto pesanti. La nostra solidarietà con Syriza consiste nella nostra opposizione ai pacchetti di austerità imposti dalla Germani alla Grecia – siamo l’unico partito in Germania a farlo – e nella nostra critica alle fallimentari politiche del governo tedesco.

La Linke ha quasi dieci anni. Quando fu fondata, poteva contare su importanti alleati in altri paesi europei, tra cui Rifondazione in Italia. Oggi, però, molti di quei partiti non esistono più…

La partecipazione di un partito di sinistra al governo è accettabile solo se porta a dei risultati concreti. Questo è l’errore che ha commesso Rifondazione in Italia, e per questo è stata punita dall’elettorato. Lo stesso è accaduto a vari partiti di sinistra europei. È un destino a cui andrà incontro qualunque partito di sinistra che continua a ripetere gli errori del passato.

Sembra esserci molta insofferenza nei confronti dell’attuale sistema economico, ma anche nei confronti dei partiti politici tout court. La Linke si è via via istituzionalizzata negli anni, e per questo non sembra essere in grado di catalizzare il malcontento popolare nella stessa maniera in cui riescono a farlo partiti nuovi come Syriza e Podemos, che si presentano come alternative di sistema. Se una coalizione rosso-rosso-verde è fuori questione (Spd-Linke-Verdi), qual è il futuro della Linke? Come può avviare un processo di ri-politicizzazione?

È una cosa molto difficile perché il sistema sociale in cui viviamo, il sistema capitalista, è estremamente impermeabile al cambiamento. È studiato in maniera tale da far sì che chi detiene il potere economico presieda su tutte le decisioni di carattere politico. Le democrazie rappresentative non sono democrazie nel vero senso del termine. È dai tempi di Pericle che sappiamo che le democrazie sono sistemi sociali che servono gli interessi della maggioranza, e ovviamente questo non avviene in nessuna delle “democrazie” europee.

In questo senso, la Linke ha senso di esistere solo se diventa – o se rimane – un partito anti-sistemico. Essere anti-sistemici vuol dire battersi costantemente a favore di una società in cui la vita sociale è riorganizzata su basi radicalmente diverse, in cui i frutti del lavoro vanno a chi se li è guadagnati. Vuol dire anche prendere atto del fatto che gli esperimenti socialisti del passato sono falliti perché erano antidemocratici e centralizzati. È necessario, dunque, perseguire una strada diversa. Personalmente, credo che la strada per superare l’attuale sistema neo-feudale sia quella delle imprese gestite dai dipendenti, in cui la democrazia si manifesta in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Perché dove esistono miliardari, non può esistere la democrazia. Nessuno ha il diritto di guadagnare miliardi. L’esistenza stessa di un miliardario contraddice l’idea di base dell’illuminismo, secondo cui la ricchezza è il frutto del lavoro.

Pubblicato sulla rivista Jacobin il 30 marzo 2015.

Print Friendly, PDF & Email

Comments are closed.

« »