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Joumana Haddad e il potere della parola

marzo 25, 2015 • Articoli, Cultura e Società, z in evidenza

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di Loredana Biffo

In esclusiva per Caratteri Liberi,   proponiamo l’intervista a Joumana Haddad intellettuale libanese e vincitrice di numerosi premi per quanto riguarda la poesia e nell’ambito sociale e civile, docente universitaria a Beirut. Autrice anche di romanzi e saggi. Fautrice della lotta femminile nel mondo arabo, è stata collocata tra le 100 donne più influenti del medioriente.

 

Joumana, è di questi giorni la notizia che in Bahrein alcuni gruppi islamisti le hanno intimato di non entrare nel paese a leggere le poesie per le quali era stata invitata dal dalla ministra della cultura, in quanto persona indesiderata per via del suo ateismo dichiarato. Il primo ministro Khalifa bin Salman Al Khalifa ha dato ordine di non farla entrare nel paese (minacciandola di morte) nonostante le proteste di molti cittadini illuminati. Vuole parlarci della libertà di espressione nel mondo arabo?

Mi fa piacere parlare della libertà di espressione nel mio mondo arabo, dove c’è un altissimo prezzo da pagare per questo diritto che nel mondo occidentale è dato per scontato. Soprattutto per quanto riguarda il “Triangolo delle Bermude”: religione, politica e sesso. La lingua araba fonda il suo orgoglio sulla ricchezza delle allegorie, simboli e sinonimi, allora perché rischiare di pronunciare una parola come seno, quando puoi andare avanti all’infinito con parole come colline e montagne, secondo la taglia del reggiseno, e mele o pere secondo la forma delle curve.

Perchè ferire la sensibilità del lettore nominando il clitoride quando puoi usare la immaginazione per descriverlo come “fiore del paradiso” o “soglia del vulcano”. Non interpretate male il mio sarcasmo,io amo le immagini, che fanno senza dubbio parte del gioco poetico, ma sono altrettanto convinta che le metafore devono essere una scelta, non un modo per fuggire al nominare le cose per quello che sono, e nel mondo arabo sono oggi un’imposizione. Per questa ragione un giorno finalmente ho scelto di dire basta. Mi sono ribellata alla codarda paura delle parole arabe, dannosa come un cancro che ti divora in silenzio e mi sono chiesta: perché devo accettare di farmi trattare come se fossi una minorenne chi altro se non io può dire quali sono i miei limiti in quanto scrittrice, quale criterio esterno decide se la dose di libertà che utilizzo è un’overdose oppure no.

Alcuni arabi, per non dire la maggioranza, parlano sempre della virtù della letteratura e della scrittura come se queste avessero una missione solo morale, mentre negano agli scrittori piena libertà di espressione, non esiste atto peggiore di privare uno scrittore delle proprie parole, sono codardi labirinti imposti alla parola, all’azioni, ai fatti e alle verità. Inoltre tutte queste doppie misure, limitazioni, di cui io e molti altri scrittori arabi siamo testimoni, sono applicate alle donne molto più dispoticamente che agli uomini. Anzi spesso questi ne sono addirittura esenti, perché agli uomini, nel nostro caro vecchio mondo arabo, fanno parlare senza reticenze, a loro è permesso come fosse un bonus di parlare perfino delle donne. La donna invece si deve accontentare di essere la ricevitrice benedetta della parola degli uomini, il soggetto passivo dei loro testi, perché lei non è nata per esprimersi, ma piuttosto per essere espressa. Quindi ci conviene chiedere cosa significa essere una scrittrice araba in un paese arabo, o in maniera ancora più controversa, cosa significa essere una scrittrice araba che scrive senza compromessi in un paese arabo oggi.

Essere una donna scrittrice in un paese arabo significa cadere in una serie di pratiche di svalutazione che comportano l’emarginazione sistematica dagli uomini, dalle donne o da entrambi. Essere una donna scrittrice nel mondo arabo, significa essere piuttosto sfuggente, mostrare un po’ qui e celare un po’ là. Significa per tante, ma fortunatamente non per tutte, chiamare le cose in codice, fronteggiare l’ossessivo sospetto che quello che stai pubblicando a tuo nome sia stato scritto da un uomo. Essere una donna scrittrice significa imporsi una severa autocensura molto più dura di qualsiasi altra censura ufficiale imposta dall’esterno. Quanto ad essere una donna araba che scrive senza compromessi in un paese arabo, significa dover essere al top di tutto, sfacciata, rude e coraggiosa. Essere pronta allo scandalo.

Non è facile essere una donna araba che scrive senza compromessi in un paese arabo, non è facile spogliarsi strato dopo strato difronte a persone estranee, non è facile esporre agli altri le tue idee se sono contro corrente. La tua vita, le tue visioni, i tuoi sogni, le tue paure e le tue sconfitte. Quando questi altri non sono solo degli inoffensivi lettori, ma soprattutto degli spietati giudici della tua persona, non è facile affrontare il mostro del pregiudizio e dell’imbarazzo, per dimostrare la tua propria essenza nei suoi punti di forza e di debolezza, nella sua bellezza e nella sua bruttezza, nelle sue vette e negli abissi. No, non è sicuramente facile essere una donna araba che scrive e pensa, che vive senza compromessi in un paese arabo. Questo tipo di donna merita di essere osservata, ascoltata e riconosciuta, perché non è semplice, né indolore trovarsi al suo posto. Ecco perché sono felice di avere la possibilità di raccontare la mia storia.

La questione della lingua araba, lei è redattrice della rivista jasad – il corpo – che ha fatto scalpore in Libano, che è il paese notoriamente più liberale del mondo arabo. In una intervista lei diceva che la lingua araba è stata mortificata, le è stata sottratta la possibilità di utilizzare quelle parole che rientrano nella sfera della sessualità e del corpo. E come reazione lei ha creato questa rivista che è libera, rivolta al pubblico arabo, che affronta temi tabù, ha molta diffusione anche nei quartieri sciiti, dove c’è una fetta di popolazione che vota hezbolla e hamas, soprattutto sebbene la rivista non possa circolare liberamente in alcuni paesi come l’Arabia Saudita, poi in realtà ci sono abbonamenti internazionali che consentono la sua lettura. Perchè questa scelta dell’arabo. Poteva pubblicarla in francese, che è una lingua molto parlata in Libano.

La ringrazio per le virgolette sulla parola libertà, perché quando si parla del Libano c’è una tendenza a descriverlo come il paradiso del mondo arabo dal punto di vista della libertà di espressione e dei diritti umani. Invece non è così, perché c’è un margine di libertà, ma appunto a margine. Noi libanesi tendiamo a paragonarci a quegli stati che sono meno fortunati di noi dal punto di vista della libertà, invece di paragonarci a chi sta meglio ed essere quindi indotti a migliorare. Per quanto riguarda la lingua araba, la pubblicazione di Jassad non è stata in realtà una opzione tra altre, io avevo già scelto quando ho cominciato a scrivere poesia, ho iniziato a scrivere in francese, dicendomi che questo era dovuto al fatto che in Libano si impara prestissimo il francese, poi in seguito mi sono resa conto che non era una scelta, ma mancanza di coraggio.

Avevo paura di affrontare i rischi nel dire le cose in arabo. Avevo 23 anni, ho poi deciso di dire le cose in arabo, nella mia lingua, è stata come una dichiarazione di guerra alla lingua araba. Che era il risultato di un amore per la mia lingua che è stata maltrattata e privata del suo potenziale. Così nel 2009 al momento di pubblica Jassad non ho esitato. Avevamo bisogno di affrontare i tabù della nostra lingua, e riprendere possesso del nostro vocabolario che possiamo ritrovare opere di scrittura erotica de tredicesimo secolo, abbiamo una grande tradizione. Ma Jassad non doveva essere solo letteratura, era soprattutto una rivista politica, c’è stata una presa di posizione nei confronti dei tutte le limitazioni poste a me ed altri intellettuali su questi temi, parlare di erotismo in questo momento così delicato e difficile della nostra storia, è molto più un fatto politico che artistico e letterario.

Vorrei dire che nei giornali italiani e occidentali, quando si parla di estremismo religioso, si parla quasi sempre di Hezbollah che è un partito sciita, ma non si tratta solo del pericolo relativo a Hezbollah,  ci sono tantissimi partiti estremisti sunniti, come Alkaida, e lo Stato islamico, che esistono anche in Libano. Quindi non solo gli sciiti sono estremisti, ma anche i sunniti, e anche i cristiani, perché in questo momento dove la sensibilità religiosa è così esacerbata, anche i cristiani cominciano ad dimostrare che la loro fede religiosa può essere un fattore di identità nazionale.

In merito alla censura abbiamo un modo di dire noi scrittori in libano: che la scrittura ci risparmia, soprattutto per quanto riguarda i libri, perché nessuno legge. In questo paese siamo afflitti da un male molto pericoloso, che è l’ipocrisia, perché c’è la paura di vivere, dire le cose come le si pensa, si scrivere ciò che si vuole, quindi c’è una forma di nascondersi, se no si ha l’impressione di essere degli attori. Io ho sempre l’impressione di vivere su un palco, molti per mancanza di coraggio ha paura di esigere una vita reale. Questo ci impedisce di avanzare, crea l’illusione di essere più liberi di altri paesi arabi, per esempio le donne libanesi si vantano di poter fare ciò che vogliono, di essere più emancipate delle altre donne del mondo arabo. Ma non so se questa donna che misura l’emancipazione solo rispetto al vestirsi come vuole o andare a ballare fino alle quattro del mattino, poter guidare mentre per esempio in Arabia Saudita non lo possono fare, questi sono diritti normali, non emancipazione.

L’emancipazione vuol dire essere trattata come una cittadina uguale agli altri, e questo non è vero, la donna libanese è molto discriminata dallo Stato, e non se ne rende conto perché si accontenta di questa dimensione superficiale della libertà e dell’emancipazione. Per non parlare dell’importanza dell’indipendenza economica, di cui molte non godono. Anche quelle che vanno all’università, che hanno la possibilità di avere una carriera interessante, sono state educate in un modo, che riduce il successo nella vita a trovare un buon marito, che in questo caso deve essere ovviamente ricco, quindi mantenersi non è nemmeno un’opzione per le donne. Mentre io penso che l’indipendenza economica è la prima condizione di una vera emancipazione. Il panorama artistico libanese negli ultimi anni è molto cresciuto ed è conosciuto all’estero, per esempio nella cinematografia, Ladine labaki, yocelin sabele, qual’è la scena culturale artistica e culturale oggi nell’universo femminile, c’è emancipazione da questo punto di vista. Grande progresso, “grande” è un termine piuttosto relativo, se facciamo il paragone per esempio con gli anni della guerra, ma se lo facciamo con gli anni 50 o 60, c’è stato un ritorno indietro. C’era un movimento di produzione artistico letterario interessante sia da parte degli uomini che delle donne, non mi piacciono le separazioni in questo ambito, per esempio non amo le antologie delle donne scrittrici, perché è una forma di discriminazione positiva.

Ma tante scrittrici e artiste degli anni 60 hanno avuto successo, ma il numero non è aumentato rispetto alle promesse di quegli anni. Non vorrei sembrare pessimista, ma l’ottimismo è un lusso in questo momento della nostra storia, è vero che molti lottano, ma c’è un ambiente di disperazione, siamo in un circolo vizioso. Ritengo che sia molto importante per i media occidentali concentrarsi su questi esempi individuale nel mondo arabo, perché possono bilanciare questa immagine scura. Sono queste minoranze che rappresentano la speranza del mondo arabo, anche se molti purtroppo se ne sono andati a vivere a Parigi, a Londra, Berlino o in Italia, perché erano stanchi di continuare a resistere..

Li capisco, anche io sono stanca, fare arte e letteratura nel mondo arabo non ti dà riconoscenza adeguata a questo sforzo che ci vuole nella creazione, soprattutto in questo tipo di ambiente. Poi ci sono alcuni che vivono in una sorta di “bolla”, che provano a creare la loro carriera artistica o letteraria staccati da quello che sta succedendo, lo fanno per autodifesa, per non impazzire, ma non credo che questo sia efficace, perché quando si ha la sfortuna, o la fortuna di essere nato in un mondo in cui c’è tanto da fare, dove puoi dare il tuo contributo e aiutare anche se in numeri limitati, con piccoli passi, e tu scegli di staccarti da questa realtà, di vivere in un mondo inventato, vuol dire che c’è mancanza di coraggio. Un filo vitale che può nutrire l’ambiente in cui vivi, deve essere mantenuto per abbattere il muro.

Lei ha tradotto in arabo Cesare Pavese, questo dimostra la varietà dei suoi padri e madri intellettuali. Quanto questi hanno contribuito alla tua formazione?

Se io oggi riesco a parlare italiano, è grazie a Cesare Pavese, a quando nell’adolescenza invece di innamorarmi delle star del cinema, mi sono innamorata dei poeti e degli scrittori. Quando lessi “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, avevo circa 15 anni, decisi di imparare l’italiano. Non sono andata a scuola per imparare l’italiano, l’ho fatto da autodidatta.

Nella mia mitologia personale che a volte costruisco, posso ringraziare Pavese che è stato uno dei miei padri, del quale mi ha colpito la storia personale, perché io ho dovuto convivere con il suicidio fin da bambina, poiché mia nonna materna armena, che aveva vissuto il genocidio quando aveva 4 anni, si era poi suicidata più tardi quando io avevo 7 anni, lo ha fatto nello stesso modo di Cesare Pavese, e anche una mia zia si era suicidata. Ho molto riflettuto su questo, e scritto molti libri sul suicidio.

La mia famiglia letteraria è molto ampia, sono cresciuta in un paese dove c’era solo la guerra, il sangue, i cadaveri facevano parte de nostro quotidiano, infatti ora non rimango scioccata quando vedo un cadavere. Ho una sorta di abitudine, per questo sono contraria che si vedano i video violenti dello Stato Islamico che decapitano le persone, perché subentra una sorta di assuefazione. Questo ci priva di una importante essenza umana, quella di reagire. Nella mia infanzia c’è stata la morte e la guerra, e anche in famiglia non era facie per uno spirito ribelle in una famiglia conservatrice. La punizione assoluta era che andavo in una scuola di suore. Quello che mi ha salvato sono stati i libri, mio padre era un grande lettore, e mi incoraggiava, perciò i miei genitori mi hanno dato vita nell’immaginazione e nella lotta. Mi hanno incoraggiata e grazie a loro sono quella che sono, senza la paura delle intimidazioni che sono tantissime.

Secondo lei il ruolo del web è positivo?

Le nuove tecnologie hanno giocato un ruolo importante nella rivoluzione, si pensi a scrittori del ventesimo secolo e a come sopportavano la loro solitudine, io posso dire che oggi il fatto di ricevere messaggi da tutto il mondo tramite i social network, mi dà una grande forza, la comunicazione è più forte. E la laicità nel mondo arabo può essere utile al cambiamento? La parola laicità ha solo un senso positivo, so che molti musulmani confondono la laicità con l’ateismo, ma il mondo arabo non può avanzare e avere un futuro dove la dignità e i diritti sono rispettati, se non adotta questa scelta della laicità, è qui il problema; la laicità è intrinsecamente contraria all’islam, che non è solo una religione, ma un “modo di vivere”, son regole che determinano il modo di governare.

La laicità ha potuto essere applicata in posti come la Tunisia e la Turchia, che sono due paesi di musulmani, tramite la forza di due figure molto dittatoriali, ma molto avanzate, come Burgheba e Ataturk, ma oggi anche in questi stati c’è un ritorno dell’estremismo islamico che è stato frustrato in questi anni. E’ un po’ un circolo vizioso, per esempio in Libano non possiamo dire che c’è laicità, io come cittadina anche se sono atea, sarò sempre considerata cattolica perché sono nata nella regione cattolica, di conseguenza tutte le mie questioni di cittadina sono regolate dalla chiesa. Quelli che invece sono sciiti, sunniti o drusi, sono regolati dalla loro religione, non siamo tutti uguali, con una sola legge che ci fa sentire appartenenti ad uno stato e una identità nazionale. La nostra politica è divisa tra le religioni. E’ una situazione tragica.

Per quanto riguarda i mass media, quanto sono presenti e pervasivi nei paesi arabi, quanto vi rappresentano? Quasi tutta la popolazione nel mondo arabo guarda la TV, ma è un media pieno di sessismo, che rappresenta la donna come decorazione. La TV è molto rappresentata dal partito che la finanza, pochissimi giornali sono indipendenti. Posso dire in coscienza che il giornale dove lavoro che si chiama Hannahar è un giornale indipendente, ma è un’eccezione. Per il resto le informazioni non sono reali e obiettive. La cosa che ci aiuta sono i social network, dove le persone possono interferire.

Qual è la sua opinione sulla libertà femminile negli altri paesi arabi come il katar, Iran, Iraq e Arabia Saudita?

Intanto vorrei precisare che l’Iran non è un paese arabo. Non sono informatissima sugli emirati, ma basta pensare che una donna non possa guidare o essere accompagnata da un maschio che è sufficiente abbia 12 anni, e tante altre discriminazioni, per comprendere la situazione. Quello che è più tragico, e che tantissime donne di questi paesi non aspirano al cambiamento, molte lo dichiarano apertamente, questo è il vero pericolo. Il mondo occidentale le vede spesso come le vittime da salvare, purtroppo non è così.

Per essere salvate, innanzitutto la prima condizione è che le donne stesse vogliano realizzare questo cambiamento senza aspettare di riceverlo. Molte donne mi dicono che io dovrei smettere di parlare di questi temi perché stanno bene così come sono, mi sono chiesta spesso perché le donne accettino questa forma umiliante di vivere. Credo sia una scelta tra una vita facile e una difficile, perchè la vita di una donna emancipata è molto più difficile. Molte donne preferiscono seguire l’educazione data da madri che hanno influito sull’accettazione di tale modello da parte delle figlie. Il modello della sottomissione viene rivendicato addirittura come “identità culturale”, per esempio mi fa male la complicità di alcune donne occidentali con questa rivendicazione, parlando di relativismo culturale, ci sono donne occidentali che difendono in burqua, la poligamia; io penso che questo sia un tradimento assoluto, non c’è nel campo dei diritti umani un contesto arabo e un contesto occidentale, c’è solo un contesto universale, la libertà e la dignità sono valori da considerarsi universali. Quando sento queste cose, mi sento tradita, perché tutto quello che sto facendo perde parte della sua forza quando mi sento dire da una donna araba che anche le donne occidentali stanno dicendo che non dobbiamo lottare per cambiare le cose.

Rispetto al principio della democrazia, e all’autodeterminazione, lei crede a quest’ultima, e cosa pensa in merito?

L’esportazione non funziona, l’autodeterminazione è il percorso che ogni popolo deve fare, anche se questo richiede più tempo, questo per arrivare alla realizzazione di diritti universali. Io vedo il ruolo dell’occidente che è troppo concentrato sull’imposizione del modello democratico, lo vedo soprattutto a livello sociale umano, può essere utile a livello di protezione, mediazione e insegnamento alla donna nella sfera dell’indipendenza economica e molti altri aspetti sul piano sociale e culturale.Ma il vero cambiamento deve partire da dentro, il muro non può essere abbattuto da fuori, perché si opporrebbe una reazione più forte.

Che ruolo hanno le università in Libano, sono aperte o istituzionalizzate?

Abbiamo molte università private, non sono tutte statali, ma il problema è che quello che si trasmette, non basta ad equilibrare l’ambiente domestico, io insegno in una università aperta, ma quando faccio una discussione con gli studenti su un tema molto banale come la verginità, il 90% degli uomini dichiara di non accettare di sposare una donna non vergine. Le ragazze non rispondono nemmeno, perché hanno troppo paura di dire quello che pensano.

L’ambiente universitario non è sufficiente al cambiamento, anche perché non tutte le persone che ci lavorano hanno questa apertura mentale, sono influenzati dalle loro appartenenze, e importano le loro idee conservatrici nelle università, invece di proporre il pensiero libero. Chi come lei lotta per i diritti, vede l’Italia come un modello al quale ispirarsi, o intravede nel modo occidentale delle forme di sessismo o razzismo ugualmente presenti? Si e no, l’Italia che mi ispira è quella del 68. Ma anche se adoro questo paese, troppe volte leggo sui giornali storie di violenza contro le donne, e questo mi preoccupa.

Quando ho pubblicato un libro per parlare del sessismo e della discriminazione nel mio mondo, molti occidentale mi hanno detto che è anche un vostro problema, ma ci sono livelli più duri da noi. Non ci sono leggi di protezione, la lotta che è stata fatta negli anni 60 è stata importante, ma se non si avanza, non vuol dire stare fermi, vuol dire andare indietro. Questo mi preoccupa, ho l’impressione che la meta a cui vorremmo arrivare, non è una meta che una volta raggiunta è vinta per sempre. Bisogna difenderla ogni giorno, certo una battaglia quotidiana stanca moltissimo, io vorrei che le cose conquistate fossero più consolidate, senza dover dimostrare ogni giorno la mia forza, dover pretendere ogni giorno che vengano rispettati i miei diritti.

Nella cultura araba maschile odierna, esiste una minoranza di uomini che la pensa diversamente rispetto alla media e al sistema?

Si, esiste e non sono pochi gli uomini che sono stanchi di questa situazione problematica. C’è una ingiustizia nei confronti degli uomini, nel mettere il mondo femminile da una parte e quello maschile dall’altra. Non deve essere così, e per questo non credo nella solidarietà femminile, ma nella solidarietà umana. Molti uomini arabi sono stufi di questo controllo della religione sulle nostre vite, e che vorrebbero vivere in un mondo più libero e fieri di avere al loro fianco donne emancipate, che non sono degli “accessori”. Ce ne sono molti. Nonostante tutta la disperazione che c’è, la luce è proprio questo. Dietro le gole tagliate al fondamentalismo, ci sono persone che lottano per il cambiamento, purtroppo il cammino è ancora molto lungo. Bisogna puntare sull’educazione e sulla cultura delle nuove generazioni. Io credo che un altro mondo arabo sia possibile oltre che auspicabile, e questo divieto di ingresso in Bahrain dimostra il potere della parola e delle idee in un momento tragico come quello che stiamo vivendo a causa del fondamentalismo.

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