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Accesso alla salute e democrazia

ottobre 19, 2014 • Articoli, Cultura e Società, z in evidenza

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In esclusiva per Caratteri Liberi, riportiamo l’intervista alla professoressa Marina Mengarelli (sociologa) coautrice con Carlo Flamigni (medico) del libro “Nelle mani del dottore?”  Franco Angeli edizioni, a seguito del dibattito tenutosi a Torino.

di Loredana Biffo –

 Partiamo dalla storica definizione del 1948 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che proponeva:

La salute, uno stato che non è descritto dalla semplice presenza o assenza di malattia ma di completo benessere fisico, mentale e psicologico-emotivo e sociale” per arrivare nel 2011 a definire la salute come “… la capacità di adattamento e di auto gestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive”. La nuova definizione, frutto di un lavoro di confronto iniziato nel 2008, pone l’accento sulla capacità dell’uomo di adattarsi e di convivere con la malattia, l’invecchiamento e la cronicità, ed avrà certamente ripercussioni sulla modalità di valutazione e misurazione dello stato di salute.

Professoressa Mengarelli, considerate queste due dichiarazioni sulla salute, e facendo riferimento al paragrafo del libro “Medicina nella filosofia”; partendo dalla dichiarazione di Jaspers, il quale sostiene che “nell’era della tecnica si rischia di perdere di vista ciò che ha veramente senso per gli esseri umani”. Nella concezione di un paradigma puramente biomedico che andrebbe superato in direzione di un paradigma bio-psico-sociale, come vede e colloca la questione del “familismo amorale”, relativamente al contesto sociale italiano che Banfild già negli anni 50 definiva come “realtà sociale ammalata”? Come secondo lei si potrebbe affrontare o perlomeno arginare tale caratteristica italiana per dare avvio ad un mutamento sociale che sia portatore di un rapporto più fiduciario ed equilibrato tra l’istituzione e il cittadino-paziente, che ci conduca oltre una gestione etnocentrica delle relazioni medico/paziente, nel senso dell’azione sociale e dei ruoli.

 La ringrazio per questa domanda estremamente complessa e tangente, perché mette in collegamento fra loro vari aspetti del libro e della realtà sociale nella sua frammentazione. Faccio una premessa: questo libro è nato dal dialogo che abbiamo in famiglia, sul come si può fare oggi medicina, come la si può osservare da un punto di vista medico e sociologico, rispetto ad una situazione che non ci piace, e nella quale ci troviamo tutti.

La dichiarazione dell’ OMS è complessa, verso una ricerca di una condizione difficile, che è quella di un equilibrio tra le parti, paziente e medico. Un concetto in evoluzione a partire dal modo in cui si vivono le relazioni sociali, che coinvolgono anche aspetti economici. A partire quindi dall’equilibrio e l’adattamento, la sua domanda comprende entrambi gli aspetti, come si fa ad uscire dal familismo amorale? Questo problema pone diversi ostacoli, in quanto invece di mettere in campo la fiducia, stimola la diffidenza (che è la ruggine delle relazioni sociali), e la difesa nei confronti dell’altro.

Certamente nelle relazioni tra cittadini e amministratori o rappresentanti politici, si assiste a delle dinamiche di potere nelle quali il cittadino è rappresentato come la parte più debole. E’ un meccanismo che tende a tutelare la parte forte di coloro “che sanno”, inaccettabile eticamente, perché rafforza il paternalismo di Stato, quello stesso Stato che, insieme al “familismo amorale”, ci contraddistingue nel panorama europeo, e certo non in senso positivo.

In riferimento a Banfild, ciò che lui osservava già negli anni 50, era un ripiegamento della società sul nucleo famigliare, oggi questo è definito dai sociologi come la causa del mancato radicamento “dell’etica pubblica” nel nostro paese. E’ il segnale di un atteggiamento egoista che tende a massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare partendo dal presupposto che “tutti si comportino allo stesso modo”.

Oggi si ritiene che il familismo sia addirittura peggiorato, degenerato in una forma ancor più patologica che è passata dall’amoralità degli anni 50 alla immoralità degli ultimi 20 anni. Questo ha come risultato, un ulteriore elemento di debolezza delle istituzioni, quindi della democrazia, e un rafforzamento del clima di sfiducia collettiva.

Si dice che gli italiani , quando devono affrontare un qualsiasi tipo di problema siano storicamente e culturalmente sollecitati a cercare soluzioni eccezionali, vie di uscita di emergenza, passerelle, e siano invece molto poco propensi ad affrontare a viso aperto ciò che deve essere modificato. E’ possibile che ciò dipenda dalla, storicamente fondata, scarsa fiducia nelle istituzioni.

La responsabilità di questa “distorsione democratica”, che fa dei cittadini italiani forse una popolazione, ma non certo una comunità nazionale in senso compiuto, è un peso che dobbiamo certamente condividere con chi ci ha governato e con chi ha disegnato i percorsi e le regole della nostra convivenza sociale; ma si tratta di responsabilità che non possiamo eludere, perché come è noto a tutti, tra governati e governanti c’è molto in comune, certamente molto più di quanto ci piacerebbe pensare.

 Per quanto riguarda le profonde connessioni tra le aree tematiche della sociologia e la filosofia, secondo lei come queste due discipline possono interagire nella costruzione di una modellizzazione di un rapporto medico/ paziente che si basi sull’empatia e sulla compassione (di cui si parla diffusamente nel libro), ma anche di una crescita psicologica del paziente stesso, attraverso una rsponsabilizzazione che lo conduca a non essere un “soggetto passivo” nella conoscenza e gestione della propria malattia, ma soprattutto che non si veda calare dall’alto (per poi esserne sopraffatto) la competenza medica. Questo al fine di ottenere un rapporto di collaborazione il più consapevole e complementare possibile. Qual è la sua opinione in merito?

 Certamente la sociologia ci serve per situare, collocare il problema in un piano più grande e metterlo in relazione con il contesto che abbiamo intorno. La filosofia a maggior ragione, tra l’altro la medicina è nata nella e dalla filosofia, e quella è la condizione a cui deve tornare, perché – come dice Jaspers – “la filosofia è l’aria della ragione senza la quale moriamo soffocati dal mero intelletto” e “nell’unione dei compiti di scienza e filosofia risiede la condizione essenziale che rende oggi possibile non la ricerca, ma la preservazione dell’idea di medico. La pratica di medico è concreta filosofia”.

 Il paradigma puramente bio medico della medicina va superato, in sostanza, a favore di un paradigma bio-psico-sociale. In questo senso sociologia e filosofia possono interagire nella soluzione di problemi e dinamiche relazionali tra cittadini e istituzioni, laddove si auspichi ad un agire sociale dotato di senso.

Vi sono quelle che definisco “piccole virtù”, indispensabili per chi è responsabile della cura, come la chiarezza, l’onestà intellettuale, l’attenzione, la disponibilità all’ascolto, l’empatia e la compassione per il prossimo, il cittadino-paziente. Attraverso una concezione della scienza e della medicina come “bene comune”, nei “nuovi diritti di cittadinanza”. Solo così si può avere un rapporto medico paziente basato sulla probabilità e non sulla verità, rendendo il cittadino consapevole della fallacia intrinseca della medicina e della necessità di ridimensionare le proprie attese.

 Considerato che, la salute è oggetto di relazioni sociali dotate di senso, che salute e malattia sono fenomeni umani non solo organici ma anche socioculturali, considerato che la modernità è estremamente complessa, abbiamo una società multiforme e ricca di contraddizioni. Pensiamo al fatto che la tendenza sempre più mal celata è di andare verso una privatizzazione incalzante delle istituzioni, e dei capitali pubblici che vengono sempre più erosi da quelli privati, è evidente il rischio (come citato nel testo) di avere “organizzazioni basate più sulle risorse che sui risultati”. Lei come vede la questione dei “diritti”, quali la possibilità di accesso alle cure – quindi fuori da una concezione della malattia come “profitto” – l’autodeterminazione che può esistere solo attraverso la conoscenza che porta poi il cittadino/paziente alla decisione. E se, come pensiamo, la salute e la malattia sono anche “costrutti sociali”, non è possibile non considerare che per i diritti si profila un orizzonte poco confortante, anche in relazione a quello che è il concetto di democrazia. Qual è la sua considerazione in merito?

 Come diciamo anche nel libro, perfino la stessa OMS ha grandi problemi finanziari, e stanno arrivando capitali privati che potrebbero condurre ad uno snaturamento. La questione delle risorse è un campo doloroso che è legato alla crisi dei sistemi di welfare proprio nei paesi nord europei, figuriamoci nel nostro paese. I diritti sono indubbiamente in conflitto con il taglio delle risorse, è questo uno dei grandi problemi che abbiamo difronte, rappresenta una possibile via di normalizzazione delle nostre storiche diversità e della nostra resistenza alla normalità democratica.

 La nostra teoria sulle relazioni di cura deriva dall’osservazione della realtà e dalla semplice constatazione che esse sono attualmente ispirate al minimalismo. Sembra che nessuno ami ricordare che i cittadini pazienti hanno, come tutti gli altri cittadini, il diritto di avere diritti e di chiedere di vederli rispettati. Ne consegue che hanno diritto all’autodeterminazione e hanno il diritto (e il dovere) di dotarsi degli strumenti di conoscenza che soli rendono l’autodeterminazione una capacità piena, ovvero una capacità riflessiva in grado di stimolare l’assunzione della responsabilità nella gestione della salute.

La malattia e la relazione di cura, poichè ci riguardano tutti allo stesso modo, dovrebbero essere considerate il banco di prova del paese reale, sul quale cimentare il nostro concetto di cittadinanza e la nostra intuizione del significato di democrazia, elementi indispensabili per poter immaginare il futuro che vogliamo costruire per le prossime generazioni.

E’ altresì evidente, che parlare di accesso alla salute, significa evidentemente parlare di democrazia, dato che non solo la salute, ma anche la cura sono diritti protetti dalla Costituzione. Stiamo dunque parlando dei nostri diritti di cittadinanza, di come devono essere garantiti e protetti e di come debbono essere eliminati gli ostacoli che continuamente vengono messi sulla strada del loro conseguimento.

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One Response to Accesso alla salute e democrazia

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